Il
31 dicembre sembra la fine dell’anno. In realtà, non credo lo sia. Il capodanno
sta a metà tra il principio e la resa, un ponte tra la fine e l’inizio. Il
capodanno è un vestito nero, appena comprato che infili spavalda per incontrare
il nuovo, quel nuovo che lava via per sempre un pezzetto, bello o brutto che è
stato. Capodanno è la speranza del sogno possibile. A capodanno tutto sembra realizzabile.
Capodanno è la zavorra che butti e la vita che scorre. L’aspettativa, che le
assenze siano lievi e le presenze colme. Che il secondo dentino che cadrà
faccia meno male in termini di ricordi, del primo. Perché mica è vero che
vedere crescere i propri figli è sempre un sollievo per l’animo. Le crescite
sono sopravvalutate. Sarebbe tutto più semplice e incantato rimetterli nella
pancia e attendere. L’attesa è una pausa, quella fase in cui sei ancora, tu, la
padrona della tua vita e di quella che porti dentro e non vedi ancora l’immagine
di quella porta che si chiuderà, di quei gradini che lentamente salirà,
rendendolo ogni giorno più autonomo; ma non per questo tu tornerai a essere padrona
indiscussa della tua vita. Che poi, ti senti derubata di una parte di te, ma è
solo amore.
Capodanno
è il brindisi con chi ami, la telefonata concitata a chi è rimasto a casa, la
linea telefonica occupata, perché sovraccarica, gli abbracci, i cari persi che speri ti guardino dalle stelle risvegliate dal
frastuono dei botti. Le lenticchie che scrocchiano sotto i denti, gli acini d’uva
che portano i soldi, l’oroscopo di Branko e quello di Brezsny, che manderesti a
fanculo ogni settimana per le strampalate previsioni che lasciano più incerti
sulla comprensione del contenuto cosmico, che preoccupati della loro attuazione.
Perché un conto è esorcizzare la paura di un eventuale attentato terroristico,
un altro, combattere contro saturno contro o una luna malmostosa.
Son
battaglie diverse, eh.
Capodanno è allontanare il pensiero dai
bombardamenti di Aleppo, dai barconi dei migranti, dai vuoti, dagli amori
rinunciati, dagli smantellamenti delle cose perdute. E ti abbandoni al nuovo,
come fossero braccia aperte, temendo in fondo al cuore che, vengano a mancare davvero,
altre braccia. A capodanno si è un po’ più forti, ma anche un po’ meno. Più
vecchi di un anno, più saggi, ma anche più fragili. Capodanno è una
contraddizione in termini, le scarpe alte per sembrare più carine e il mal di
piedi per averle indossate, la cosa nuova messa addosso e quella vecchia
buttata, un ricordo smarrito che, lascia il posto a quello che lo diventerà.
Capodanno
è anche un po’ Oh happy Day, When
Jesus washed (when Jesus washed) e un ritornello reinventato che non
sto a raccontare perché mi ricorda un capodanno solo per alcuni amici. Il capodanno
però è anche Brigitte Bardot, Bardot,
con annesso trenino che, la dice lunga sulla natura delle persone e azzera completamente
in me, la comprensione per le debolezze del genere umano.
Ma
alla fine, nonostante il ternino e il classico Cacao meravigliao, cantato verso la mezzanotte e quaranta circa,
come è da copione nella migliore tradizione, mi sa tanto che brinderemo tutti
alla speranza, al bisogno di credere nella capacità di ognuno di rendere questo
mondo, un posto migliore, un luogo meno merdoso, una terra un po’ più madre.
Che
il 2017 vi sia lieve…
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