venerdì 30 dicembre 2016

Il luogo dei ricordi smarriti


Il 31 dicembre sembra la fine dell’anno. In realtà, non credo lo sia. Il capodanno sta a metà tra il principio e la resa, un ponte tra la fine e l’inizio. Il capodanno è un vestito nero, appena comprato che infili spavalda per incontrare il nuovo, quel nuovo che lava via per sempre un pezzetto, bello o brutto che è stato. Capodanno è la speranza del sogno possibile. A capodanno tutto sembra realizzabile. Capodanno è la zavorra che butti e la vita che scorre. L’aspettativa, che le assenze siano lievi e le presenze colme. Che il secondo dentino che cadrà faccia meno male in termini di ricordi, del primo. Perché mica è vero che vedere crescere i propri figli è sempre un sollievo per l’animo. Le crescite sono sopravvalutate. Sarebbe tutto più semplice e incantato rimetterli nella pancia e attendere. L’attesa è una pausa, quella fase in cui sei ancora, tu, la padrona della tua vita e di quella che porti dentro e non vedi ancora l’immagine di quella porta che si chiuderà, di quei gradini che lentamente salirà, rendendolo ogni giorno più autonomo; ma non per questo tu tornerai a essere padrona indiscussa della tua vita. Che poi, ti senti derubata di una parte di te, ma è solo amore.

Capodanno è il brindisi con chi ami, la telefonata concitata a chi è rimasto a casa, la linea telefonica occupata, perché sovraccarica, gli abbracci, i cari persi che speri  ti guardino dalle stelle risvegliate dal frastuono dei botti. Le lenticchie che scrocchiano sotto i denti, gli acini d’uva che portano i soldi, l’oroscopo di Branko e quello di Brezsny, che manderesti a fanculo ogni settimana per le strampalate previsioni che lasciano più incerti sulla comprensione del contenuto cosmico, che preoccupati della loro attuazione. Perché un conto è esorcizzare la paura di un eventuale attentato terroristico, un altro, combattere contro saturno contro o una luna malmostosa.

Son battaglie diverse, eh.

 Capodanno è allontanare il pensiero dai bombardamenti di Aleppo, dai barconi dei migranti, dai vuoti, dagli amori rinunciati, dagli smantellamenti delle cose perdute. E ti abbandoni al nuovo, come fossero braccia aperte, temendo in fondo al cuore che, vengano a mancare davvero, altre braccia. A capodanno si è un po’ più forti, ma anche un po’ meno. Più vecchi di un anno, più saggi, ma anche più fragili. Capodanno è una contraddizione in termini, le scarpe alte per sembrare più carine e il mal di piedi per averle indossate, la cosa nuova messa addosso e quella vecchia buttata, un ricordo smarrito che, lascia il posto a quello che lo diventerà.

Capodanno è anche un po’ Oh happy Day, When Jesus washed (when Jesus washed) e un ritornello reinventato che non sto a raccontare perché mi ricorda un capodanno solo per alcuni amici. Il capodanno però è anche Brigitte Bardot, Bardot, con annesso trenino che, la dice lunga sulla natura delle persone e azzera completamente in me, la comprensione per le debolezze del genere umano.

Ma alla fine, nonostante il ternino e il classico Cacao meravigliao, cantato verso la mezzanotte e quaranta circa, come è da copione nella migliore tradizione, mi sa tanto che brinderemo tutti alla speranza, al bisogno di credere nella capacità di ognuno di rendere questo mondo, un posto migliore, un luogo meno merdoso, una terra un po’ più madre.

Che il 2017 vi sia lieve…