venerdì 30 dicembre 2016

Il luogo dei ricordi smarriti


Il 31 dicembre sembra la fine dell’anno. In realtà, non credo lo sia. Il capodanno sta a metà tra il principio e la resa, un ponte tra la fine e l’inizio. Il capodanno è un vestito nero, appena comprato che infili spavalda per incontrare il nuovo, quel nuovo che lava via per sempre un pezzetto, bello o brutto che è stato. Capodanno è la speranza del sogno possibile. A capodanno tutto sembra realizzabile. Capodanno è la zavorra che butti e la vita che scorre. L’aspettativa, che le assenze siano lievi e le presenze colme. Che il secondo dentino che cadrà faccia meno male in termini di ricordi, del primo. Perché mica è vero che vedere crescere i propri figli è sempre un sollievo per l’animo. Le crescite sono sopravvalutate. Sarebbe tutto più semplice e incantato rimetterli nella pancia e attendere. L’attesa è una pausa, quella fase in cui sei ancora, tu, la padrona della tua vita e di quella che porti dentro e non vedi ancora l’immagine di quella porta che si chiuderà, di quei gradini che lentamente salirà, rendendolo ogni giorno più autonomo; ma non per questo tu tornerai a essere padrona indiscussa della tua vita. Che poi, ti senti derubata di una parte di te, ma è solo amore.

Capodanno è il brindisi con chi ami, la telefonata concitata a chi è rimasto a casa, la linea telefonica occupata, perché sovraccarica, gli abbracci, i cari persi che speri  ti guardino dalle stelle risvegliate dal frastuono dei botti. Le lenticchie che scrocchiano sotto i denti, gli acini d’uva che portano i soldi, l’oroscopo di Branko e quello di Brezsny, che manderesti a fanculo ogni settimana per le strampalate previsioni che lasciano più incerti sulla comprensione del contenuto cosmico, che preoccupati della loro attuazione. Perché un conto è esorcizzare la paura di un eventuale attentato terroristico, un altro, combattere contro saturno contro o una luna malmostosa.

Son battaglie diverse, eh.

 Capodanno è allontanare il pensiero dai bombardamenti di Aleppo, dai barconi dei migranti, dai vuoti, dagli amori rinunciati, dagli smantellamenti delle cose perdute. E ti abbandoni al nuovo, come fossero braccia aperte, temendo in fondo al cuore che, vengano a mancare davvero, altre braccia. A capodanno si è un po’ più forti, ma anche un po’ meno. Più vecchi di un anno, più saggi, ma anche più fragili. Capodanno è una contraddizione in termini, le scarpe alte per sembrare più carine e il mal di piedi per averle indossate, la cosa nuova messa addosso e quella vecchia buttata, un ricordo smarrito che, lascia il posto a quello che lo diventerà.

Capodanno è anche un po’ Oh happy Day, When Jesus washed (when Jesus washed) e un ritornello reinventato che non sto a raccontare perché mi ricorda un capodanno solo per alcuni amici. Il capodanno però è anche Brigitte Bardot, Bardot, con annesso trenino che, la dice lunga sulla natura delle persone e azzera completamente in me, la comprensione per le debolezze del genere umano.

Ma alla fine, nonostante il ternino e il classico Cacao meravigliao, cantato verso la mezzanotte e quaranta circa, come è da copione nella migliore tradizione, mi sa tanto che brinderemo tutti alla speranza, al bisogno di credere nella capacità di ognuno di rendere questo mondo, un posto migliore, un luogo meno merdoso, una terra un po’ più madre.

Che il 2017 vi sia lieve…

 

martedì 6 settembre 2016

La ragazza danese


Ieri sera ho visto The Danish Girl. O meglio, ne ho visto un pezzo. Poi ho dovuto ripiegare su Nemo, per la quindicesima volta, vista la presenza di mio figlio. Una volta addormentato, ho cercato il film in streaming, accontentandomi della versione inglese, davanti alla quale, salvo alcune pause forzate, ho chiuso gli occhi solo questa mattina. E il film, di occhi, mani, sguardi e scorse, ne è pieno.

 La ragazza danese è un film di trasformazione e di amore. Un film di testa che affronta, invece, la trasformazione del corpo prima e dell’animo poi. Probabilmente non in quest’ordine. La trasformazione di un uomo nato erroneamente dentro un corpo di donna, nei primi del ‘900 e l’amore incondizionato di sua moglie che, complice dell’emersione della parte femminile, lo accompagna lungo il viaggio verso una nuova identità, rinunciando a lui come uomo e come compagno. Un film poetico e doloroso.

Questa mattina, preparandomi per una giornata rognosa, il pensiero si avvinghia intorno al concetto di trasformazione. Più banalmente, come si cambia per non morire, come si cambia per ricominciare…

Le cose cambiano. Cambiano le stagioni, cambiano i giorni della settimana, cambiano le temperature, cambiamo noi, dentro e fuori. Basta osservare intorno le scene di vita quotidiana in costante, lenta o rapida trasformazione. Il concetto di cambiamento è un concetto molto democratico, piuttosto popolare. Vecchio come il mondo. Tutti lo vivono, nessuno escluso. Semmai, diverse sono le percezioni, le emozioni, le riflessioni che lo accompagnano. Tutta roba molto semplice. Resta atavico, invece, il dilemma che il cambiamento comporta: la paura del nuovo e la voglia di cimentarsi nell’affrontarlo. Il mondo e la storia sono pieni di archetipi che descrivono questa ambivalenza. Si cambia per necessità, si cambia per adattamento, si cambia per opportunità, si cambia per urgenza, si cambia per sopravvivenza. Lo fanno tutti, anche i serpenti. Lasciano la vecchia pelle per una nuova.

Tornando alla Ragazza danese, a colpirmi profondamente non è stato il coraggio del protagonista disposto, in un’epoca in cui la materia era ancora sperimentale e nel pieno del tabù culturale, ad affrontare la sua trasformazione, quanto, piuttosto, la forza della moglie nel supportare tale scelta, anteponendo il bene dell’altro, al suo. Perché si sa, se le trasformazioni, le crescite, i cambiamenti dei due elementi che compongono  la coppia, vanno nella stessa direzione, ci si unisce, altrimenti, ci si perde. E ritrovarsi, poi, è più difficile che perdersi da soli.

giovedì 1 settembre 2016

Grazie Beatrice...


Questa grandissima, enorme, oscena, oltraggiosa, minchiata del Fertility day, mi ha dato la voglia di tornare a scrivere, qui. Per mesi ho pensato di aver esaurito le cose interessanti da dire. Se mai ne ho dette. Il blog è nato circa tre anni fa, da allora sono cambiate un sacco di cose, dentro e fuori. Inevitabile che non andasse così. Complice un’età diversa, una consapevolezza più matura, la spossatezza che cozza con le inquietudini perenni, tipiche di un acquario cui non basta mai niente e che sente, esageratamente, il peso delle pene. Molte blogger, dopo pause forzate, si rinnovano con diverse piattaforme, layout rinvigoriti, temi differenti da trattare, più vicini alle corde che il tempo ha contribuito a cambiare. Altre, abbandonano gli argomenti sino a quel momento sviscerati per imbarcarsi in nuove traversate, traghettate da stimoli ed esperienze urgenti da condividere. Ci ho pensato. E molto. Ho pensato di lasciarmi alle spalle il mondo dell’infertilità per scrivere di altro. Ma questo luogo custodisce le pagine migliori della mia vita, pagine d’amore dedicate a Daniele, parole che mai riuscirò a scrivere meglio. A parte alcuni post di cui farei bene a vergognarmi. Ma data l’età, sto diventando orfana anche della vergogna. Perché a una certa, ci si destreggia come meglio si può, si pensa meno a piacere e più a piacersi, o meglio si dovrebbe, si dispensano più vaffa, anche solo mentali e si fa pulizia nel cuore e nell’armadio. Non so di cosa scriverò e chi ha avrà ancora voglia di leggermi, ma sono certa che è qui che voglio continuare a raccontare…

martedì 3 maggio 2016

Manca aria


Giorgia Spano è l’autrice del post “Essere la mamma di un maschio è una responsabilità e un onore” post che in pochi giorni è diventato virale su facciadalibro.
Condiviso, amato, diviso e spartito in rete dalla maggior parte delle mamme di figli maschi. Laureata in biologia, ricercatrice in una Università di Milano e presidente di una associazione che sostiene la collaborazione tra le donne mamme e la genitorialità definita ad alto contatto ha scritto quello che, è poi diventato uno tra gli articoli più gettonati sul web. In origine il doveva essere una lettera regalo per un amica in procinto di partorire un figlio maschio, poi è diventato una sorta di specchio nel quale la maggior parte delle mamme di maschi si sono ritrovate. Il post , di seguito riportato, è bello e ha del vero.
Contiene la descrizione di quei riti quotidiani in cui la mamma di un figlio maschio si ritrova in pieno. Dalla sensazione di non saper gestire lo zampillio di una pipì così lontana dalla nostra, passando per lo sconcerto davanti all’ardore della guerra simulata in tutte le sue più eccentriche sfumature dai piccoli ninja. Commuove lo stupore e la meraviglia della scoperta dell’ amore provato per una “personcina” tanto diversa rispetto al modo di sentire di una donna, prima ancora che, di una madre. Il testosterone, differente dalla sindrome premestruale, il volo, il non ritorno. L’amore incondizionato, prima, il distacco fisiologico, poi.

Ripeto, il post è bello, ma lascia una sensazione sgradevole nell’animo. Almeno, nel mio.
Termina, infatti, affermando che il figlio maschio sarà un uomo sano ed equilibrato, quando gli basterà sentirci una sola volta a settimana. Allora capiremo di aver fatto un buon lavoro, come madri, avendo cresciuto un uomo per bene, sottointendendo, un uomo, risolto.
 Rileggendo più volte il post, ho faticato a capire cosa davvero mi disturbava di ciò che leggevo. Poi ho capito.
Il post manca di magia.
Manca dello stupore dell’innamoramento. Manca del senso di meraviglia dell’attesa del fare del proprio figlio  un uomo degno quando, uomo non significa solo maschio e degno non significa solo probo.
 
Manca aria.

Manca il sapore di un legame “così forte e necessario da essere invisibile” che, un uomo può, con la propria madre. Anche a cento anni.

Nel post tutto è già scritto, scontato, non lascia margine al cambiamento. La madre ama incondizionatamente, sapendo che il figlio maschio se ne andrà, perché è così che deve essere. Prendersi cura, sorreggendo le aspirazioni, sopportando le evasioni, accettando le affermazioni, in una lenta e ineluttabile preparazione all’addio. Eppure. Eppure, sono convinta che il  buon lavoro di una madre non si spieghi solo nell’ allenamento alla separazione. Tra separazione ed indipendenza c’è un atto specifico, reciproco. Un atto di volontà e consapevolezza che si costruisce lentamente, giorno dopo giorno, esercitandosi alla promessa di non perdersi, mai.

E allora mi viene in mente di nuovo una delle cose più belle scritte da Chiara Cecilia Santamaria per sua figlia “Come aria”

Com’è diverso quel sentimento che mi sarà sempre estraneo, quello di attaccarsi al neonato come ad una proprietà e sentirsi complete solo con una piccola appendice al fianco, e come è intenso e nuovo questo, quello di avere una figlia che è una bambina né grande né piccola, che capisce i sentimenti e ti ragiona con la voce sottile, ed inizia ad andare per il mondo. Inizi a lasciarla per il mondo, perché sai che è sui gradini dell’indipendenza che si costruisce l’amore buono. Anche se il mondo è solo il tuo Paese al di là della Manica, anche se è una casa conosciuta. Com’è strano vederla sbracciarsi dall’altro lato dei controlli, avere gli occhi un po’ lucidi e pensare che, forse, il tuo obiettivo è fare in modo di non mancarle anche quando le manchi. Essere una certezza talmente forte da resistere alle distanze. Quelle del tempo e dello spazio. Quelle delle idee e delle ambizioni. Quelle del carattere. Quelle della vecchiaia. Concederle di potersi dimenticare di me quando sta bene, senza sentirsi in torto. Sapere che siamo unite da qualcosa di così forte e necessario da essere invisibile. Come aria. Com’è difficile, per i genitori, accettare che i figli vivano lontano da loro. E com’è necessario, questo, affinché vivano"
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Essere mamma di un maschio richiede agilità, lo capisci da subito, da quando ad ogni cambio sul fasciatoio devi schivare pipì zampillanti. E ti servirà quell’agilità negli anni a seguire, per rincorrere un piccolo corridore a cavallo di ogni mezzo di trasporto: monopattino, bicicletta, moto cavalcabile. Essere mamma di un maschio richiede formazione continua. Cosa differenzia una ruspa da una scavatrice? Che super-potere ha Iron man? E che diavolo mai sarà un camion bisarca?
Essere mamma di un maschio è mistero, perché lui è altro da te. La sindrome premestruale avresti anche potuto capirla, il testosterone è invece un modo sconosciuto fatto di barbe, pomi d’adamo e polluzioni notturne.
Essere mamma di un maschio è meraviglia e scoperta, perché in fondo i maschi mica li avevi capiti così bene.
Essere mamma di un maschio è responsabilità e onore di crescere un uomo per bene.
Essere mamma di un maschio richiede agilità, lo capisci da subito, da quando ad ogni cambio sul fasciatoio devi schivare pipì zampillanti. E ti servirà quell’agilità negli anni a seguire, per rincorrere un piccolo corridore a cavallo di ogni mezzo di trasporto: monopattino, bicicletta, moto cavalcabile.
Essere mamma di un maschio richiede formazione continua. Cosa differenzia una ruspa da una scavatrice? Che super-potere ha Iron man? E che diavolo mai sarà un camion bisarca?
Essere mamma di un maschio porta a superare le proprie paure e repulsioni. Ad esempio quella dei ragni e degli insetti più ripugnanti che tu possa immaginare. E se non sei aracnofobica, stai sicura che lui adorerà rettili o anfibi o qualunque cosa ti faccia rabbrividire.
Essere mamma di un maschio richiede forza d’animo, per non morire d’amore quando ti dirà che sei la sua regina e l’unica donna che vuole sposare. (non temere, cambierà idea!)
Essere mamma di un maschio ti aiuta nelle scelte. Le tute sono tutte blu, grigie o nere, le magliette basta prenderle in stock, variando tra immagini di moto, barche o super-eroi,
Essere mamma di un maschio significa fingere. Fingere che i suoi regali di compleanno ti piacciano; con fogli impiastricciati e sculture sbilenche è semplice, quelli ti piacciono davvero. La vera prova è fingere quando avrà 30 anni e ti regalerà l’ennesimo libro o l’ennesima crema antirughe.
Essere mamma di un maschio è consapevolezza che un giorno si vergognerà di farsi vedere nudo da te; a poco vale la consolazione che almeno non ci sarà più il pericolo di pipì zampillante.
Essere mamma di un maschio è separazione, perchè un giorno spiccherà il volo e ti chiamerà una volta a settimana. E proprio il fatto che non ti chiami 3 volte al giorno significherà che hai fatto un ottimo lavoro.
Essere mamma di un maschio è mistero, perchè lui è altro da te. La sindrome premestruale avresti anche potuto capirla, il testosterone è invece un modo sconosciuto fatto di barbe, pomi d’adamo e polluzioni notturne.
Essere mamma di un maschio è meraviglia e scoperta, perchè in fondo i maschi mica li avevi capiti così bene.
Essere mamma di un maschio è responsabilità e onore di crescere un uomo per bene.

 

venerdì 22 aprile 2016

Apologia breve dello “sticazzi” e critica pura al “Ciaone” by Bill, sii come Bill…


Conoscete Bill ?
Il meme virale che su Facebook ritrae l’utente dei social in diverse situazioni quotidiane dando, attraverso esilaranti vignette, una sorta di “modus vivendi” all’insegna dell’intelligenza e della correttezza?
Bill rispetta le code e quando va in bici si mette in fila indiana per non ostacolare gli automobilisti , Bill non stalkerizza gli amici su Facebook, se fuori piove e Bill è su Facebook non pubblica stati come “Che pioggia!” perché sa che tutti hanno le finestre….«Bill è intelligente, sìì come Bill».
Sostanzialmente  Bill è un omino stilizzato geniale nella sua stupidità - da quando il suo disegnatore Eugeniu Croitoru ha aperto la pagina “Be like Bill” ha ottenuto un milione e mezzo di like- che, stigmatizza alcuni comportamenti diffusi nei social e propone, invece, di seguire l’atteggiamento ovvio che si dovrebbe tenere nelle situazioni normali.
Ovvio, direte, voi. Non così ovvio. L’invito ad essere come Bill, è l’invito ad essere intelligenti, o perlomeno, adottare comportamenti non idioti.  Ora che ho spiegato chi è Bill, credo che scriverò al disegnatore per chiedergli di creare una vignetta con Bill in favore dello "Sticazzi" e, contro l’uso improprio del "Ciaone". La filosofia dello Sticazzi racchiude un mondo: è la presa di coscienza della finitudine umana e l’accettazione del non poter avere tutto sotto controllo. Quindi:dove non si arriva si mette un punto e Dio vede e provvede. Io di più non posso fare. Dietro il Ciaone c’è, invece,  la presa per i fondelli dei piddini contro chi ha votato al referendum- io non sono andata, per scelta ponderata e convinta- e  si nasconde la politica del “sotto l’hashtag niente”, “frammenti di pensiero scomposto lanciati nella rete come proiettili volti ad offendere la logica e la serietà: parlamentari come animatori del Club Med che intrattengono gli elettori con lo sketch della trivella. Nasce così una nuova figura politica: lo scrannista. Lo scrannista è la versione politica del tronista di Uomini e Donne: seduto comodamente sul suo scranno -giusto il tempo della diretta sul canale Sky della Camera e poi via pronto per un talk show- il figlio della rottamazione va a dare mostra di sé sfoggiando la sua assenza di contenuto”. Sono sicura che Bill , se parlasse, direbbe sicuramente, sticazzi, e mai ciaone.
Bill è intelligente, sii come Bill…

 


lunedì 7 marzo 2016

La crisi dell’età di mezzo


Quel momento in cui, niente è come sembra


L’età di mezzo, quella tra i quaranta e i cinquanta anni ha il puzzo della nostalgia, l’irrequietezza dell’adolescenza e la smania della vecchiaia. Un disastro per l’equilibrio di una persona. Chi dice che l’adolescenza sia un’età problematica e complessa, disturbata da grandi cambiamenti, non conosce, ancora, quella di mezzo, inquinata profondamente da contraddizioni e incoerenze. L’età di mezzo, è, infatti, l’età delle crisi nostalgiche per aver perduto lo smalto della giovinezza, per aver perduto, la giovinezza. E’ l’età dei bilanci, ma anche il suo contrario, l’età in cui ci si sente ancora al centro, con la voglia di rimettersi in gioco, perché non si ha niente o quasi niente da perdere e tutto da guadagnare. E’ l’età dell’indulgenza, ma anche no. L’età in cui, impari in qualche modo a volerti bene, pur odiando i tuoi difetti. Insomma è come un fare pace con le tue plurime personalità, come se Psicho, finalmente, perdonasse sua madre, senza volerla accoltellare nella doccia, una sera sì, e l’altra pure, ma gli rimanesse dentro l’istinto di strangolarla.

“Jung afferma che durante questa stagione dell'esistenza "si prepara una profonda modificazione dell’animo umano", mentre Erikson la definisce "una svolta necessaria, un momento in cui lo sviluppo deve procedere in un senso o nell’altro".

Se l’età di mezzo viene anche chiamata “il demone di mezzogiorno”, fatevi una domanda e datemi una risposta, perché in questo periodo, io ne ho davvero poche.

Un fatto è certo: preferiamo riconoscerci in definizioni, tipo, “le quarantenni” o “le cinquantenni”, perché l’espressione“signore di mezza età” non ci va proprio, giù…a dispetto delle lotte che ingaggiamo contro il tempo, per fermare l’inarrestabile generale perdita di tono. Un tono che, non è solo epidermico ma diffuso.

Di tutte quelle battaglie che, a una certa età si vincono, per raggiunta saggezza e pervenuta maturazione, io sono ancora in balia. Personalmente, non ho fatto pace con niente, né con il mio corpo, né con le mie idee e mi arruolo in guerre con me stessa, dal sapore punitivo.  Invidio, in senso benevolo eh, le amiche che, paghe di loro stesse, si accettano, pregi e difetti compresi, che hanno eliminato le diete, che amano le loro rughe, che sono positive e accolgono di buon grado il fatto che, non avranno mai il culo di Belen, la capoccia della Hack, il talento della Austin.
Io, invece, alterno, periodi di depressione, a cadute libere di motivazione, mescolo urgente bisogno di cambiamento, alla ricerca di nuovi stimoli, nuovi settori, nuove sfide.
Poi, di nuovo, impasto paure, nei confronti della morte, della mia e dei miei cari. La paura di essere troppo vecchia per il mio bimbo ancora piccolo, il timore di non aver fatto nulla di davvero importante, insieme alla sensazione che, ormai, sia tardi per qualunque altro tipo di scelta. E mi trovo a chiedere, come a quindici anni, chi sono, cosa voglio, cosa può promettermi un futuro, già vecchio?
Irresponsabile? Sì. Immatura? Sì.
Imparare ad accettarsi?
Magari.
Chissà, con il tempo…

 

 

giovedì 25 febbraio 2016

La logica dell'amore


Come si misura la dimensione di un amore, la sua crescita o il suo decremento? Con un termometro che ne rilevi la contrazione o lo sviluppo? Con la determinazione di indicatori capaci di valutarne l’estensione, la superficie, la profondità? Oppure, stimando le emozioni?

E, come si stima l’impatto di un’emozione? L’influenza di una nostra azione sull’altro, o la conseguenza di quella dell’altro su noi? Controllando la presenza, la vicinanza, i messaggi, i gesti?

Riflettevo su questo da giorni quando, questa mattina mi sono imbattuta in un articolo di Viviana Ponchia sulla Nazione che scrive a proposito del rapporto tra Massimo Bossetti, in carcere per il presunto omicidio di Yara Gambirasi e sua moglie Marita. Riporto alcuni brani dell’articolo della giornalista, senza entrare volutamente nel caso, solo perché alcuni passaggi mi hanno colpito, in riferimento alla mia domanda iniziale: Come si misura un amore? Lo faccio, nel pieno rispetto di una vicenda dolorosissima. Ma, trovo molto bello il modo di descrivere la routine di un rapporto, indipendentemente dal rapporto nello specifico, che è fatta di mille piccoli gesti che, day by day, costruiscono, a mio avviso, la logica dell’amore.

“Tre figli, la biancheria sporca che si mescola nello stesso cesto. I conti da far quadrare in due. Le sere, tutte uguali, cementificate in una banalità felice. E quell’abilità che non si apprende sui libri, il talento di tradurre uno sguardo, un piccolo cedimento del sorriso. A forza di stare insieme si diventa chiaroveggenti, il pensiero dell’altro è il lenzuolo con macchie e strappi che gli altri non vedranno mai. Si passano le notti nello stesso sogno. Abitudini, strategie: uno scambio per contagio. Certi matrimoni sottopongono i partecipanti a modificazioni antropologiche. Per affetto o necessità si diventa gemelli siamesi, legati dal cuore o dalla testa. Si va avanti come nel tango, eretti e sincronizzati finché la musica suona”.

Si batte un tempo in due e se uno inciampa, si aspetta. La scansione ritmica è, a volte, data da ciò che sente il cuore.

Deduco quindi, che, l’amore si misuri con un metronomo.

Che lo si veda o lo si senta, non ha importanza, a patto che, come Fossati insegna, qualunque amore che si faccia più vicino al cielo, nasconda l’orizzonte e poi ancora, cielo.

venerdì 5 febbraio 2016

Un tema su cui non ho certezze


Torno, con una certa irrequietezza, a parlare di argomenti vicini ai motivi per i quali, questo blog è nato.
Maternità, nelle sue diverse declinazioni, nelle sue innumerevoli sfumature, nei suoi diversi significati. O forse, più precisamente, di Gravidanza, nelle sue diverse declinazioni, nelle sue innumerevoli sfumature, nei suoi diversi significati.
 Lo faccio, riportando la riflessione della scrittriceMichela Murgia, sulla maternità surrogata che, dopo giorni di scelleratezze e stupidità lette ed ascoltate, urlate dai fedeli sostenitori del family day, da alcune correnti femministe, dagli oltranzisti difensori della “famiglia tradizionale”, mi sembra il ragionamento più serio ed onesto, fin’ora affrontato.

La riflessione della Murgia nasce dall’appello contro la "maternità surrogata"presentato da un pezzo del  movimento Se non ora quando -l’associazione Snoq Libere- che ha aperto il dibattito a sinistra, denunciando i rischi di quello che viene appositamente descritto come «utero in affitto». La Murgia non ha firmato l’appello, spiegando in un corretto, integro e schietto ragionamento, la sua posizione.

 “Da settimane mi ronza in testa il fastidio legato all'appello firmato da molte donne (e tra loro molte che stimo e con cui ho condiviso percorsi), ma che io mi sono rifiutata di firmare, come tante altre. Non ho scritto ancora il perché e la ragione è che il perché è complesso e richiede molta e collettiva elaborazione, che sospetto siano alcuni degli aggettivi con cui non si può definire il percorso che ha condotto alla stesura dell'appello di Snoq Libere. Vorrei iniziare l'anno condividendo in post differenti alcune riflessioni che ho fatto in questi mesi sul tema, cercando il più possibile di isolare le direttrici del discorso per affrontarle con la minima confusione possibile, e intendo la mia, dato che questo è un tema su cui non ho certezze

Prima di cominciare a discutere di maternità surrogata penso che andrebbe definito meglio cosa dobbiamo intendere per maternità nel 2016. Se con essa ci riferiamo alla dimensione fisica e/o spirituale che unisce al desiderio procreativo la disposizione ad assumersi la responsabilità genitoriale su una vita altrui, è escluso che essa si possa surrogare, giacché è un atto di volontà e consapevolezza personale non alienabile.

È fin troppo ovvio dire che non basti restare incinte per parlare di maternità, ma forse non è altrettanto ovvio ricordare che questa affermazione è una conquista civile piuttosto recente. Per secoli siamo state infatti madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate, se non a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo del secolo scorso a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale ciò che era un destino collettivo.

Non è quindi tollerabile oggi in un discorso serio sentir definire “maternità” il processo fisico della semplice gravidanza, che in sé – e lo sappiamo tutte – può escludere sia il desiderio procreativo sia la disposizione ad assumersi la responsabilità e la cura del nascituro. Di conseguenza è improprio discutere anche di maternità surrogata. Si può discutere invece di gravidanza surrogata, purché resti chiaro che si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Operare questa distinzione è tutt’altro che ozioso, perché la legge italiana – entro i limiti che conosciamo – permette già ora a una donna che resta incinta di scindere i due processi e agire per rifiutare il ruolo indesiderato di madre, sia attraverso l’interruzione di gravidanza, sia attraverso la rinuncia permanente a curarsi del neonato.

Chi si oppone alla gravidanza surrogata chiamandola “maternità” e adducendo come motivazione l’unicità insostituibile del legame che si stabilirebbe tra gestante e feto sta ponendo le condizioni perché gravidanza e maternità tornino a essere inscindibili e quella sovrapposizione torni a essere usata contro le donne SEMPRE, ogni volta che per i motivi più svariati provassero a scegliere di non essere madri.

Reintroducendo nel dibattito la mistica deterministica del “sangue del sangue” non si sta quindi mettendo in discussione solo l’ipotesi della surrogazione gestazionale, ma anche alcuni comportamenti che sono già normati come diritti nel nostro sistema giuridico, cioè l’aborto e la possibilità di rinunciare alla potestà genitoriale, per tacere dell’adozione, legame di pura volontà che in questo modo – non originandosi “dall’avventura umana straordinaria” della gravidanza – tornerebbe nell’alveo delle maternità di serie B. Sbalordisce dunque che a utilizzare la categoria del legame naturale siano donne che si richiamano al percorso femminista.

La motivazione è evidente: proprio perché un essere umano non è una merce, in nessun caso il denaro versato alla donna gestante può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma sempre e soltanto una remunerazione della sua gestazione. Si paga il tempo, si paga il rischio, si pagano le assistenze, ma non si compra il nascituro, la cui cessione avviene per pura volontà da parte di colei che ne è a tutti gli effetti la madre fisica. Non importa di chi sono gli ovociti e lo sperma: anche la gestante ci mette del suo, non è un mero corpo attraversato. Non importa nemmeno quanto è costato il processo: il risultato sarà comunque un dono, che può restare in mano alla sola persona che ha il diritto di considerarlo proprio fino a quando non rinunci spontaneamente a farlo.

La discriminante in un ragionamento da credenti non può dunque essere “quanto voglio il figlio”, che è un desiderio legittimo sia sul piano emotivo che sul piano simbolico, ma “quanto sono disposta a usare il corpo di un’altra per ottenerlo”. Che lei me lo conceda è relativo: il bisogno economico potrebbe spingerla a farsi mia schiava come Bila lo fu di Rachele e in questo non c’è autodeterminazione. La mia a prezzo della sua… è accettabile? Ed è autodeterminazione il pensiero che mi impedisce di percepirmi pienamente donna se non divento anche madre? Non lo so, perché questa spinta a riprodurmi non l’ho mai avvertita dentro di me al punto da considerare un’ipotesi del genere. So però che davanti al desiderio di un’amica, di una sorella del cuore, quello che non ho chiesto mai a un’altra per me stessa, lo farei io liberamente per lei. E non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo”.

Personalmente, quello che trovo di più bello in questa lunga considerazione, è la certezza di non avere certezza in materia e, di conseguenza, l’umiltà di dire “non lo so”, ma se lo sapessi, vorrei poter essere libera di scegliere.