giovedì 27 agosto 2015

La selfite


Lo ammetto. I selfie mi sconcertano. Non dico che non mi sia mai capitato di postare foto per il semplice gusto di imprimere un ricordo, anzi, l’autoscatto ha un suo perché. La fotografia è la scrittura della luce e come tutte le scritture, anche quest’arte, soggiace alla lettura e al giudizio dell’altro. Ma il selfie è altra cosa. Questa smaniosa frenesia di condividere la propria immagine impressa in azioni ovvie o normali, e in pose artefatte, che niente hanno a che vedere con il “cogli l’attimo” indebolisce la mia fiducia nel genere umano, che è già molto vicina allo zero. Da poco ho scoperto, con una certa incredulità, che esiste anche un’asta per tenere il cellulare in modo che uno sia libero di fotografarsi. Non ci volevo credere. Il bello è che la mania del selfie non risparmia nessuno: madri non proprio giovanissime con prole numerosa che mostrano grazie e graziotte, donne con problemi di peso, uomini convinti di essere i nuovi Argentero, capi di stato, gente che sta lì, lì, per esalare il suo ultimo respiro, eppure è pronta a condividere socialmente, anche la morte. Spesso mi capita di pensare quando, qualche persona che non vedo e non sento da anni mi chiede l’amicizia su un social, cosa la spinga a credere che sia piacevole riallacciare un’ amicizia virtuale, quando volutamente, abbiamo smesso di frequentarci venti anni prima. Stesso dicasi per il selfie: cosa spinge una persona a credere che altre trovino interessanti le sue cosce in riva al mare, o i suoi piedi smaltati? E’ ovvio che io mi riferisca alle persone che fanno del selfie la loro primaria forma di comunicazione, non certo a chi sporadicamente condivide momenti che ritengono importanti o semplicemente, propri.  E non rispondetemi che uno si selfa per far ridere e divertire gli altri perché, anche, no. Grazie. Credo piuttosto che uno si faccia, selfie per, raccontarsi, mostrarsi, apparire, esporsi, sui social, diffusissima forma di comunicazione a portata di tutti. E allora, come domanda mio figlio quattrenne quando sono mossa da azioni non chiare nei suoi confronti, io chiederei a questi signori: ma che avete nella testa? A chiedermelo non sono solo io, visto che studi recenti stanno analizzando questo fenomeno come nuova malattia:

“Gli studiosi ora si chiedono se si tratta della moda del momento, e quindi passeggera, o se nasconda qualche bisogno psicologico. La scienza è all'opera per dare risposte. Una ricerca ad hoc dell'Università Cattolica a Milano, condotta dal team del professor Giuseppe Riva, docente di Psicologia e nuove tecnologie della comunicazione. E lui è netto: "Un selfie è da considerarsi differente da un semplice autoscatto, il quale non prevede la componente social della condivisione, e anche da un self-shot, termine che nel contesto dei nuovi media è arrivato a identificare le fotografie di sé stessi a tema erotico. La ricerca, tuttora in corso, ha tre obiettivi principali: in primo luogo, ovviamente, quello di comprendere per quale motivo le persone scattino così tanti selfie; ma anche capire se ci siano differenze tra uomini e donne in questa pratica, e infine analizzare le possibili caratteristiche psicologiche, dal punto di vista della personalità, delle persone che hanno l'abitudine di puntare verso sé stessi la fotocamera del proprio smartphone”.

Questi i risultati:

“I risultati preliminari emersi finora hanno mostrato qualcosa di interessante: 150 partecipanti (35% maschi, 65% femmine), con età media di 32 anni, hanno completato un questionario sui dati anagrafici; uno sul loro utilizzo di social media, sull'attività del selfie e sulle motivazioni associate; il questionario Big Five Inventory per la misurazione dei tratti di personalità.

Perché "ti selfi"
Gli scopi riconosciuti all'attività del selfie sono soprattutto "far ridere e divertire gli altri" (39%), "vanità" (30%) e "raccontare un momento della propria vita" (21%). Emerge che i selfie si fanno non tanto per esprimere come sono o come si sentono (identità, aspetti interiori) bensì per raccontare agli altri con chi sono, dove sono e cosa stanno facendo (aspetti esteriori).

Le donne sono più selfie-dipendenti
Non può certo essere considerata una sorpresa il fatto che le donne amino farsi i selfie più degli uomini: le donne ne scattano, infatti, molti di più, e risultano più interessate alle motivazioni interiori. Inoltre, altro aspetto piuttosto prevedibile, affermano di sperare maggiormente di ricevere commenti positivi dagli amici sui social network, e temono più dei maschietti di ricevere commenti negativi.

Che ti passa nella testa?
Per quanto riguarda l'ultima domanda di ricerca, sono tre gli aspetti della personalità che risultano associati all'attività del selfie, spiega la ricerca in corso: "Le persone che si fanno selfie, rispetto a coloro che non se li fanno, appaiono significativamente più estroverse (ovvero più socievoli ed entusiaste, caratterizzate da elevate capacità sociali) e più coscienziose (ovvero più caute e capaci di controllarsi, con la tendenza a pianificare le proprie azioni piuttosto che ad agire di impulso) ".

Quindi, teoricamente, la donna incline al selfie, sarebbe significativamente più socievole, estroversa, dotata di autocontrollo e capace di pianificazioni strategiche.

Buffo, no?

Ed io credevo che fosse meno sveglia della rappresentante della specie dell’anatra muta.

E’ proprio vero. Devo in qualche modo rinvigorire la mia fiducia nel genere umano.

 

martedì 18 agosto 2015

Un uomo

"L'amore non è un riposo e quando nasce dai coiti dell'anima può diventare tragedia".
 
 "Un uomo" Oriana Fallaci

venerdì 14 agosto 2015

Il posto delle margherite


La verità sul caso Harry Quebert * è stato il caso editoriale dell’anno scorso. Scritto da Joel Dicker, classe ’85, è un romanzo giallo. Non solo. E’ un libro sull’arte del saper scrivere, sui sentimenti, sull’attribuzione di senso alla vita che solo la scrittura e l’amore sanno dare. Forse è un libro sull’amore. Quello con la A maiuscola, quello che si aspetta tutta la vita e oltre, quello di cui si continua a vivere anche dopo che il compagno ci ha lasciati. Un amore a volte anche stucchevole, zuccheroso, adolescenziale, forse per questo anche più intenso. Un amore impossibile, viziato, destinato a far male. E un noir pieno di colpi di scena che tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina. Di quei libri che, appena finiti di leggere, lasciano un vuoto pieno, l’ossimoro per eccellenza, simile alla vertigine. Perché quando un libro finisce, è come se finisse con lui la parte di te che ha risvegliato. E un po’ ti viene da piangere e un po’ da ridere. Rileggerlo per una seconda volta non darà mai le medesime sensazioni. E’ un libro di anime perdute, ognuno a modo suo. Dove l’apparenza cela verità intime e spesso dolorose, dove niente è come appare. Ma non scrivo del libro per recensirlo. La rete pullula di commenti, giudizi e recensioni.
Scrivo per il posto di cui hanno bisogno le margherite.

Mi spiego.

Nella verità sul caso Herry Quebert si racconta la morte violenta di una ragazza e con lei, la morte di un amore infattibile che sopravvive alla stessa. Infatti, l’innamorato, l’amante, lo scrittore, il protagonista Harry Quebert resta ad attendere il ritorno della defunta e ferma la sua vita alla sua scomparsa. E’ come se spingesse il tasto pausa, sospendendo desideri, bisogni, pensieri. Continua a compiere, giorno dopo giorno le azioni compiute quando lei le era accanto, compra un cane giallo di nome Storm, come lei avrebbe voluto e ciba i gabbiani che lei ha amato.

Ma lei non c’è. E con lei, manca totalmente il senso da attribuire alla sua esistenza. Manca la musa, manca la rettitudine. Senza, viene meno l’uomo probo, viene meno, l’uomo.

Che c’entra tutto questo con il posto delle margherite?

Il posto delle margherite rappresenta, per me, il luogo-non luogo, che ognuno di noi, più volte nella vita ha immaginato e provato a realizzare. Può essere un giardino di farfalle, un appartamento al centro o in periferia, uno status, una professione, un ruolo. Può essere, essere madre, non esserlo, essere esattamente ciò che si voleva diventare, può essere, essere ciò che si è cercato di cambiare. Il mio posto delle margherite, ad esempio, nel mio immaginario di bambina, ragazza e poi donna, era un giardino, pieno di margherite, in riva al mare con un tavolo sotto a un oleandro, dove poter scrivere circondata dai tanti  figli che avrei voluto avere, i miei cani ai piedi, il mio compagno accanto e vicino, i miei cari. E tanto più la vita reale, quella che il destino ci ha in qualche modo portato a creare, somiglia al proprio posto delle margherite, tanto più ci sentiremo appagati.

Ecco, io credo che la verità del libro che, coincide poi con la verità che ognuno di noi cerca, sia che non si può sprecare una vita intera aspettando di trovare il posto più giusto per le proprie margherite.

Spesso la morte, proprio perché di morte trattasi, rende eterni e cristallizzati sentimenti che altrimenti, vivendoli, subirebbero, per forza, le ingiurie del trascorrere del tempo. La morte, la sospensione, la pausa fermano il tempo, santificano persone, consacrano emozioni, ma sacrificano anche l’essenza della vita che poi, in sintesi, è provare a vivere continuando a cercare il posto più adatto dove piantare i semi delle proprie margherite anche quando somigliano alla gramigna.

Buon Ferragosto.

*“Estate 1975. Nola Kellergan, una ragazzina di 15 anni, scompare misteriosamente nella tranquilla cittadina di Aurora, New Hampshire. Le ricerche della polizia non danno alcun esito. Primavera 2008, New York. Marcus Goldman, giovane scrittore di successo, sta vivendo uno dei rischi del suo mestiere: è bloccato, non riesce a scrivere una sola riga del romanzo che da lì a poco dovrebbe consegnare al suo editore. Ma qualcosa di imprevisto accade nella sua vita: il suo amico e professore universitario Harry Quebert, uno degli scrittori più stimati d’America, viene accusato di avere ucciso la giovane Nola Kellergan. Il cadavere della ragazza viene infatti ritrovato nel giardino della villa dello scrittore, a Goose Cove, poco fuori Aurora, sulle rive dell’oceano. Convinto dell’innocenza di Harry Quebert, Marcus Goldman abbandona tutto e va nel New Hampshire per condurre la sua personale inchiesta. Marcus, dopo oltre trent’anni deve dare risposta a una domanda: chi ha ucciso Nola Kellergan? E, naturalmente, deve scrivere un romanzo di grande successo. La verità sul caso Harry Quebert è un fiume in piena, travolge il lettore e lo calamita dalla prima all’ultima pagina. è il giallo salutato come l’evento editoriale degli ultimi anni: geniale, divertente, appassionante, capace di stregare prima la Francia, poi il mondo intero”.

martedì 11 agosto 2015

La finestra aperta


Sono stata minuti che sembravano ore- e forse lo erano- a guardarlo dormire. Fuori, i fulmini illuminavano, senza preavviso, la stanza calmata dal vento ristoratore. Dormiva, dormiva del sonno buono dei bambini. L’odore della terra bagnata si è mescolato a quello delle pieghe del collo. E’ abbronzato, biondo, abbronzatissimo. I bambini quando dormono hanno il sorriso dei sogni, gli angoli della bocca sono sempre rivolti all’insù. Prendersi cura, questo è stato sempre uno dei miei problemi. Un esagerato sentimento volto alla protezione. L’istinto mi ha spinto a chiudere la finestra, la ragione a lasciarla aperta. Perché da lì passeranno aspirazioni, evasioni, affermazioni. Insieme agli scontri e spero, ai ritorni.

Quella finestra “sempre aperta di una casa di carta su di un’isola deserta, per chi sa volare che da noi possa arrivare a riposare” cantava Finardi. Quella finestra intorno alla quale, tutti i genitori, chi più chi meno, erigono un sistema di fortificazioni degno delle migliori opere militari balistiche, che neanche la linea Maginot, a difesa dei propri figli. Eppure, nessuna difesa mobile o statica è in grado di impedire la capacità di erosione del bisogno di libertà. Di provare, per sbagliare, imparare, cadere, costruire e costruirsi. Perché in fondo la vita dei nostri figli è fuori, oltre la finestra. Anche quando fuori piove. Anche quando leggi dell’ennesima stupida morte per droga, anche quando sai che, malgrado tu abbia seminato una vita, il suo campo, non puoi controllarne tutti i semi. Ed è proprio da quelli più spontanei e ingovernabili, quelli portati dal vento libero che brucia e poi calma, che, spesso, nascono i fiori più belli.

Dormi, amore mio. Dormi ancora.