C’è che ogni città di provincia possiede il proprio “matto”.
Persone fuori dagli schemi, al margine della follia, ai limiti. Probabilmente
anche le metropolitane li hanno, solo che, per dimensioni, caratterizzano solo
alcuni quartieri o zone precise. Noi di matti ne abbiamo avuti parecchi. Sarà
per via della presenza degli inceneritori. I nostri matti, tutti tendenzialmente
di buona indole (tranne uno o due) hanno contribuito a rafforzare l’identità
della mia città.
Non sempre positivamente.
Ogni villaggio, ogni paese, ogni agglomerato di
uomini, possiede il suo matto. Perché il matto è chi rompe gli schemi, chi non
ci sta, colui che non si addomestica.
Ogni paese ha una leggenda, una storia. Certo, anche
in questo la giustizia è mal distribuita: c’è chi ha il “Sabato del villaggio”
e chi “Lu paciarellu de bocca porcu”- e non chiedetemi di tradurre- ma, a ben
guardare, ognuno ha il suo giullare.
Tra i vari matti che son passati lungo le vie di
Terni, una è rimasta nel cuore a tanti.
Era Ausilia, la brutta copia della Merlini. Avrà pesato
sì e no un cento chili, una coda di cavallo bassa, ai piedi degli orrendi
gambaletti color carne. Chiedeva una sigaretta, oppure cento lire. Mille, con l’inflazione.
Si appollaiava nei punti nevralgici della città e con il sorriso sdentato che
ti conquistava, ti induceva a darle anche più di quel chiedeva. Aveva gli occhi
brilli. Come se emanassero la luce tipica di chi ha visto prima il brutto e
avesse deciso di alzare lo sguardo, sopra. IL suo sorriso illuminava, eppure
forse, era più sola di certe tenebre.
E non so perché, ma oggi mentre sfrecciavo con la
bicicletta tra le vie del centro, tra una corsa e l’altra per incastrare orari e
impegni, ho pensato a lei.
L’ho rivista seduta in maniera poco elegante, con le
gambe pelose scomposte, sconnessa, affacciarsi da un mondo tutto suo.
E la cosa peggiore è che, l’ho salutata.