lunedì 29 dicembre 2014

Gli stivali con lo smoking


 
Il mio approccio all’anno nuovo somiglia a quello di chi si appresta a leggere l’oroscopo di Paolo Fox. Del tipo, reverenzial- scaramantico: non credo a quello che dirai sull’acquario, ma se pronuncerai cose negative, mi guasterai l’umore per l’intera giornata. O quello di chi si accinge a maneggiare un ingrediente culinario prelibato e delicato che al minimo errore, si può guastare come niente. Come quando apri il forno e smosci il sufflè. Il mio approccio all’anno nuovo somiglia all’andatura di un pachiderma dentro un negozio di cristalli: se mi muovo troppo, rompo irrimediabilmente qualcosa. Quindi, preferisco la staticità, almeno per i primi mesi.

E vivo la fine dell’anno, come chi subisce la fine di un amore subita, appunto. Non ci si può fare gran che, ma si va avanti. Così è la fine di un anno, non ci si può far niente, ma ci permette di andare incontro a quello nuovo. Poco importa se il rapporto che si è avuto con l’anno passato sia stato idilliaco, c’è che finisce, ma ci sarà altro.

Che poi si ricorderanno momenti, emozioni, pianti o sorrisi, indipendentemente dal mese o l’anno in cui li abbiamo provati. E il bisogno di incasellarli dentro una data precisa risponde alla necessità di trovargli un posto che il cuore sorvegli.

Il mio anno è stato bello. Alti e bassi, ma bello.

L’amore viscerale per mio figlio ha scandito le albe e i tramonti. Mi hanno cinto braccia che mi amano e presenze che, prego mi accompagnino il più a lungo possibile, mi hanno protetta.

Ma, essere felici, quando si è felici, è esercizio assai semplice. Diversamente, se hai avuto un anno di merda, speri solo che il destino si accanisca contro una pietra o un sasso ma che volga lo sguardo altrove.

Però ho imparato che il pezzo di destino che abbiamo davanti può avere un sacco di sorprese. E quando ho momenti no, mi vengono sempre in mente le parole della mia mamma: “Quello che non succede in un anno, può succedere in un’ora e vale sempre la pena vedere come va a finire”.

Pare che la vita abbia un ritmo proprio, spesso indipendente dalla nostra capacità di ballarci sopra. Il problema è che, come il gatto Scatt-Cat degli Aristogatti, tutti vogliono fare il Jazz, anche quando la vita ti propina samba, rumba e rock and roll, polka, rumba e rondò.

E non sempre si sceglie la musica che si vorrebbe danzare. Però, le scarpe giuste, quelle le si possono indossare. Perché se ci si mette i tacchi e suona un rock, è possibile che, se non avvezze al tacco dodici, con molta probabilità si cada. Il tip-tap viene male se ballato con le converse e il flamenco peggio, se si indossano sandali infradito.

Quindi, prima di scendere dal letto ed andare incontro a questo 2015 vediamo che musica batte; magari sarà il più afro dei jazz, con note swing e blue, magari ci farà sognare, improvvisando passi più corti delle nostre gambe o lunghi quanto i nostri sogni. Magari inciamperemo sui nostri stessi piedi, ma, se persone, peraltro scalze e affatto felici hanno improvvisato la musica di rottura per antonomasia che, nasce dai campi per alleviare il dolore di chi non dispone della propria libertà, riuscendo a dare un suono ed un animo allo smarrimento della vita, allora noi, il minimo che possiamo fare, è mettere le scarpe giuste e provare a ballare una musica anche senza note.

Poco importa se abbiamo sbagliato scarpe sino ad ora; la ricerca della felicità indossa anche le calzature sbagliate degli errori. Ritornare sui propri passi è un dettaglio che fa grandi.

Il resto va da sé. Ci sarà l’alternarsi struggente o luminoso di giorni positivi seguiti da quelli negativi, l’aggrovigliarsi di nodi dall’aspetto spettinato, ci saranno pause, attese ed emozioni palpitanti sottopelle.

E silenzi, quelli in cui ritrovarsi, dopo che la musica è finita. Ci saranno giorni che si terranno la mano in un grande cerchio fino a formare un anno intero di ore lente. Notti che ruberanno altro sonno e regaleranno i centimetri dell’infanzia di un bimbo sempre più lungo, sempre più sveglio, sempre più fondante, all’oblio della spensieratezza. Ci saranno cose.

 

Che siano buone, queste cose. Che sia un buon 2015. Che sia buono, anche per chi usa mettere gli stivali con lo smoking.

 

 

 


venerdì 19 dicembre 2014

Un sogno possibile


 

Tra mononucleosi, influenze, otiti e virus di diverso genere, siamo quasi arrivati a Natale.

Ho visto la prima recita di mio figlio, e ho pianto di emozione.

Perché quel quasi metro di bambino sul palco, per me, era la cosa più vicina alla perfezione.

La mia, almeno, di perfezione. Il mio sogno possibile.

Ho letto tanti post sul Natale. Racconti di emozioni, di attese, alcune felici, altre meno. Alcuni bilanci stringono il cuore e fanno apprezzare di più quel che si ha. Che è tanto, che è tutto, che è vita.

Ho pensato molto ad una frase che, priva di un’accezione negativa, mi ha detto l’altra sera mio marito. “Tu sei madre, prima di essere Raffaella.”

Lì per li non ho capito bene cosa intendesse dire. Se la maternità mi avesse privata di una parte importante della mia personalità o se avessi, in qualche modo, messo in secondo piano me stessa in favore di un ruolo.

Poi ho capito. E sì, sono madre, prima ancora di essere Raffaella. Ma credo che lo fossi, anche prima di mettere al mondo, Daniele. Questi giorni festosi, sono giorni spietati per chi aspetta un figlio che non arriva. E’ così, senza tanto girarci intorno. Chi prova, sa.

Perché il Natale è legato a doppio filo al concetto di maternità. Tutto rimanda ad un atto creativo, di nascita, di speranza, di fiducia.

Rubo, allora, le parole di Cecilia Mazzeo che, lo scorso anno ha pubblicato su mmamaimperfetta questo post che, trovo bellissimo.

Perché è l’importanza di credere a Babbo Natale che, ci rende, tutte, comunque, madri.

“Se chiudo gli occhi e penso a Babbo Natale vedo un signore barbuto, canuto, con occhietti vispi, teneri e acquosi. Un abito rosso che sa di ciniglia, di velluto e di pannolenci. Scarponi neri che non fanno rumore, che nascondono passi felpati. Impronte eterne nel cuore e nella memoria di ogni bimbo e poi di ogni uomo. Un’infinita catena di riti, letterine, campanelle, nasi all’insù.
Ma ancor prima di tutto questo mi balza allo sguardo una protuberanza: la sua pancia. Quella pancia che sa di nonno goloso, di banchetti “grassi” perché al Polo Nord fa molto freddo e si ha bisogno di calorie. Quella pancia che rassicura perché imperfezione umana, perché cuscino per le pene. Il mio sguardo però ha acchiappato al volo anche un pensiero farfalla. La pancia mi rimanda immediatamente ai concetti di: attesa, gravidanza, nascita, maternità. Quale simbolo migliore della pancia a rappresentare il dono, l’amore? Cos’ è la pancia femminile se non una cuccia calda in cui germoglia la vita e cresce e si fa strada, mistero d’amore!
Ogni tanto mi piace pensare che Babbo Natale sia un po’ tante cose. Un nonno sì, un nonno con pancia di madre. Che sia la fusione, l’alchimia, il senso profondo del nostro essere qui a festeggiarci e festeggiare il Natale.
Del resto l’Avvento che ci conduce a scartare i suoi regali nella notte in cui nasce il Bambin Gesù che cos’è se non una gravidanza in miniatura? Un nono di gravidanza. 24 giorni in cui il cuore, come un ventre, dovrebbe prepararsi per accogliere. In cui dovrebbe accendere fiammelle dolci per rischiarare i passi, le direzioni. Avvento, dal latino significa “venuta”. Per la fede cristiana, la venuta di Gesù Cristo annunciata da una coda di stella brillantissima, dai Re Magi, dai pastori, dalle genti che accorrono. La manifestazione di una gravidanza misteriosa senza seme. Un seme di luce disceso dal cielo e annunciato da un angelo. Quando invitiamo qualcuno a casa nostra ci piace che la casa sia pulita e in ordine, che emani una bella energia. E all’igiene del cuore, dei pensieri…ci pensiamo mai? Il significato dell’Avvento è proprio questo: preparare il cuore. Spolverarlo. Buttare ciò che non serve e fare spazio per nuove energie. Accendervi dentro candele profumate e sanificanti.

E Babbo Natale in tutto queste, domanderete voi?
Babbo Natale è, secondo me, una specie di ponte umano, simbolico, fiabesco tra il sacro e il profano. È la personificazione della speranza, della fiducia, del sogno possibile. È il cuore che si spreme, che desidera, che ascolta, che crede, che si fida. È una specie di oggetto tranfert, di copertina di Linus, di ciuccio, di biberon con latte caldo. È un personaggio che, come i protagonisti delle fiabe, permette al bambino di costruirsi una coscienza emotiva armoniosa e fiduciosa. Lo stesso psicanalista Bruno Bettelheim spiegava l’importanza delle fiabe e dei suoi personaggi come strumento di decodificazione della realtà e come stampella che fornisce le chiavi di lettura per superare conflitti e paure. Inoltre è l’icona dell’uguaglianza.
Fino a due anni fa io scomparivo nella pancia di Babbo Natale. Era solo lui l’artefice di tanta magia, di quell’attesa che fa venire l’acquolina e fa palpitare il cuore. Ero una specie di ghost christmas maker. Non volevo togliere ai miei figli l’amicizia di questa figura importante, di questo “nonno” magico vestito di rosso. E’ fondamentale tenere intatto il cassetto della speranza e della gioia bambina, fondamentale poter dire “io credo, io mi fido.” Babbo Natale è un atto di fiducia, di amore senza discriminazioni. Babbo Natale dovrebbe saper azzerare le distanze, è il sogno di tutti, per tutti.
I miei figli non sono più piccoli e sono fin troppo svegli. Avevo paura che qualche loro compagno, più scettico e arrogante, potesse disturbare il loro incanto. Così ho cominciato a prevenire, ho fatto a loro alcuni discorsi.

“Sapete, ci sarà qualcuno che vi prenderà in giro, ci saranno amici che vi diranno ‘ma sei scemo? credi ancora a queste fandonie? Sei proprio un pirla!’. Ma voi non offendetevi, rideteci su. Non sanno quello che si perdono, non sanno che Babbo Natale non disturba chi non crede, ma soddisfa chi lo aspetta con il cuore spalancato. Ah, un’altra cosa: ci saranno bambini che riceveranno meno o più di voi. Non è una cosa strana: Babbo Natale sa leggere il cuore dei genitori, non violenta i loro desideri, il loro modo di pensare. Per ottenere certe cose…è perché dovete crederci davvero tanto, con tutta l’anima, con le braccia aperte”.

Sono contraria a quei genitori che, come panzer, comunicano ai propri figli (pensando siano già grandi): BABBO NATALE NON ESISTE!, che è come dire “TI HO FREGATO PER DIECI ANNI, ORA BASTA, SEI GRANDE.”
No, non così per favore. Questa è una forma di VIOLENZA lo sapete? È un imbroglio? Una durezza che vi tornerà indietro senza sconto!
Nessun bambino deve accorgersi razionalmente di quel passaggio. Non deve esserci una comunicazione così brusca, cattiva quasi. Tutto deve essere fluido, liscio, naturale, amorevole, dolce.
Io ho cominciato l’anno scorso. Babbo Natale (io) ha scritto loro una lettera…dicendo che ormai sono quasi grandi e che i bambini nel mondo continuano a nascere e sono davvero troppi per le sue sole forze, seppure magiche. Che lui li ha instradati verso il Natale, li ha “svezzati”, condotti, nutriti, che non sparirà mai per loro, ma che passerà il testimone alla mamma (a me), vegliando sul mio lavoro, regalandomi spunti, confidandomi segreti, prestandomi un po’ della sua polverina magica, farcendo la mia mente di idee.

Loro non hanno dubitato minimamente.
Come se, nel fondo del cuore e da sempre, sapessero che Babbo Natale sono io. Che io sono Babbo Natale. Che l’amore è Babbo Natale. Che Babbo Natale è un gesto, una coperta che ti avvolge per 24 giorni e ti rimane dentro per il resto dell’anno.
Che Babbo Natale è una cre-azione: un’azione d’amore creativo. L’azione di chi nasce insieme a Gesù…infinite volte…nel dono d’amore”.

 

Buone feste.

 

 

martedì 2 dicembre 2014

Travi, pagliuzze e piloni di cemento


Non è che io voglia commentare vangelo e sacre scritture. Lungi da me.

Ma, ultimamente, reo il fatto che alla scuola materna di mio figlio c’è un bimbo che, nel suo immaginario, incarna il male, mi trovo spesso a interrogarmi sul comportamento della gente.
Anche della gente piccola. Alias, dei bambini.

Immagino che in ogni scuola del mondo ci sia un bambino che, agli occhi dei nostri figli, rappresenta tutto il negativo possibile.

Nella scuola di mio figlio c’è questo bambino, cui darò un nome immaginario, Guido Guidoni, che, potrebbe benissimo essere arruolato nelle file legionarie straniere. Cosa che non escludo.

Comunque, pare che, Guido Guidoni soffra di una qualche forma di iperattivismo, sofferenza che la famiglia, piuttosto distratta, tende a sottovalutare. Complice anche il fatto che, la scuola pubblica non ha un centesimo da spendere neanche nei casi in cui servirebbe il sostegno, Guido Guidoni, spesso picchia, strilla, spacca e a detta di mio figlio, non si lava i denti.

Mio figlio dice che Guido Guidoni non riceverà alcun regalo da babbo natale, perché cattivissimo e maleducato. Sembra che il motivo della contrazione economica, del debito pubblico, del buco nell’ozono, della diffusione di ebola e della presidenza di Matteo Renzi, sia opera del Guidoni.

Il Guidoni, che comunque vanta l’ascendente tipico del lucignolo, quella sorta di fascino cattivo che fa sempre presa sugli altri, non si lava i capelli, risponde male alle maestre, dice le parolacce, compreso stupido e idiota, si toglie le caccole e soprattutto non sta in cerchio. Ora, io non ho la ben che minima idea di cosa comporti lo stare in cerchio, ma agli occhi di mio figlio, questa cosa sembra, gravissima.

Cattivissimo, Guidoni.

Della famiglia del Guidoni sappiamo poco. Non sappiamo se sia maleducata come il figlio, se abbia un piano educativo ed emozionale. Non sappiamo se i genitori siano abituati a strillare, a rispettare le regole, a rispettarsi reciprocamente. Credo, come tutti che, dietro un bimbo cattivo, ci siano cattivi genitori. Applicavo questa regola anche all’educazione del mio cane, prima ancora che a quella di mio figlio. Anche se non sono del tutto convinta che sia tutta colpa dei poveri genitori la riuscita esistenziale di Pietro Maso. Come credo che Charles Manson, Jaffrey Dahamer o chi per loro, abbiano, di certo, scientemente deciso di applicare il male.

Ora, dire che un bambino è cattivo, significa, in parte, dire che anche la famiglia, in qualche modo, contribuisce alla cattiveria del soggetto in questione. Menare, spintonare, gridare, insultare, strappare disegni, non stare in cerchio, hanno alla loro origine, degli esempi negativi a monte.

Consapevoli quindi che siamo l’ambiente in cui il bambino cresce e vede, che siamo il loro prototipo, dovremmo interrogarci su travi, pagliuzze e piloni di cemento.

E’ che purtroppo siamo tutti un po’ inclini all’auto giustificazione, alla misera pratica di derogare alla regola, o peggio alla morale, in caso di personale discolpa.

C’è un libro bello di Gianrico Carofiglio “ La regola dell’equilibrio”. Il titolo del libro si ispira al concetto dell’ equilibrio per esplorare la dimensione dello sbaglio come possibilità di recupero, e chance di riparare ai propri errori in contrapposizione a quella della giustificazione dello sbaglio stesso, come pretesa, boria e ostentazione che rende cieco chi è in malafede.


Devo ricordarmelo la prossima volta in cui, stanca e inquieta, dovrò essere capace di strozzare in gola una parolaccia e non sentirmi dire da mio figlio: “Mamma, cazzo non si dice. Hai detto una brutta parola, proprio come Guido Guidoni.