Questo post è difficile.
E parla di aborto.
Lo dico subito. Non continuate a leggere, perché se fa male, fa male.
Leggo un articolo, e mi si piazza davanti agli occhi un’immagine che,
non riesco a cancellare.
Vedo mio figlio che corre con il motorino. Da dietro al sellino lo
abbraccia spaventata una ragazza dagli occhi liquidi. Sono impauriti, smarriti
e cercano, forse nel modo sbagliato, di rimediare ad un errore. L’errore di due
ragazzini alle prime armi con l’amore e con il sesso.
Per comprare la pillola del giorno dopo hanno fatto una colletta tra gli
amici.
Quando si è giovani gli affari personali, si condividono con gli amici.
Come i vestiti per le ragazze, come i sogni prestati di testa in testa.
Un dolore sordo al centro del petto me lo fa immaginare vagare come un
delinquente a chiedere la ricetta per un farmaco che nessuno gli vuole dare.
Me lo vedo, in mezzo ad un calvario che io, non posso evitargli.
Due ragazzini spaventati che, corrono da una farmacia all’altra,
trovando consultori chiusi e facce che li giudicano mentre sale la paura per
una gravidanza per cui non sono pronti.
Ecco, se immagino, vedo il pericolo per un dolore che, potrebbe essere
evitato se solo non vivessimo nel paese dei paradossi.
Un paese dove, sebbene un farmaco sia legale, è difficile trovare medici
che lo prescrivano, dove quasi tutti i medici sono obiettori di coscienza,
prima che dottori. Una coscienza che preferisce far vivere ad una donna uno dei
dolori più devastanti, piuttosto che, fare il proprio dovere, mettendo da
parte, idee personali.
Io odio l’aborto.
Lo odio perché interrompe, mette fine, azzera. Mortifica il domani, la
prospettiva, il senso di futuro.
Lo odio visceralmente quando, è naturale, lo piango quando, è
volontario. E non potrebbe non essere così, per una per cui, diventare madre, è
stato una grazia.
Ma cerco di capire. Cerco di comprendere che non tutte le donne hanno le
stesse possibilità, la stessa forza, lo stesso coraggio. Concepisco le scelte
differenti dalle mie, come altro da me, ma mi calo sempre nei panni di chi le
ha fatte proprie. E in qualunque caso, il prezzo pagato, è sempre eccessivo,
per una scelta che, non è mai banale. Ritrovarsi nel vuoto di una perdita, non
cambia di una virgola, quando lo strazio è subito. Anche quando è scelto.
C’è una squadra di medici volontari dell’associazione
Vita di donna, una rete di volontari che in tutta Italia si rende disponibile e
reperibile ogni giorno fino alle sette di sera e il sabato fino a mezzanotte e che
cerca di prescrivere la pillola del giorno dopo per evitare aborti.
A loro va tutto il mio sostegno e la mia stima.
Spero solo che, sulla strada di quei due ragazzi spauriti, ci siano ad
attenderli persone capaci di comprendere.
Rossella Boriosi mi ha ispirato per scrivere questo.
Per tutte le amiche che sopravvivono ad un dolore, con tutto l’amore che
posso.
Ad una in particolar modo.
Leggetelo solo se avete il pelo
sul cuore…
Cosa manca
Tu ed io non abbiamo mai guardato il mare insieme.
E la nostalgia mi aggredisce tendendomi il più
brutto degli agguati.
Mi manchi e avverto la tua assenza come la
peggiore delle perdite.
Dopo di te, questa sensazione di inquietudine, di
attesa d’altro, per sempre.
Mi manca il figlio che non sei nato. Mi manca,
l’insieme eterno di prime volte che non abbiamo avuto. Il senso di meraviglia
infinita che è stato attenderti, anche per poco. Anche solo immaginare cosa ci
avrebbe dato, guardarci, cosa sarebbe stato il tuo primo pianto, la prima
parola, il tuo toccarmi.
E di nuovo guardarci e parlare e conoscerci. E
sussurrare parole che hanno senso solo per una madre e per un figlio.
Non arrivo a pensarti come uomo. Siamo stati
troppo poco tempo, attaccati.
Mi manca, non sapere.
Dopo di te, sapevo.
Sapevo che ci sarebbero stati giorni in cui avrei
sentito le farfalle e poi un dolore sordo, che non avrei più portato il cuore
gonfio di incanto che, non mi sarei più sentita sazia.
Essere paga è un esercizio che, dopo di te, non mi
è più riuscito.
Ho provato ad adeguarmi. Senza successo.
Addosso la sensazione di aver sbagliato. La
sensazione di un lutto che non ha fine.
Avrei voluto essere tua madre. Non la madre di un
altro bambino. La tua.
Cucirti maschere per proteggerti il viso,
galleggiare su barche di carta, dipingere di verde il tempo.
Invece, c’è questa madre, che madre non è, questa
donna senza fondo che si cerca ancora e ancora e balla scalza sulla tomba di
ciò che non è stato.
E ti sogna, malgrado, il tempo.
Ho vissuto altre prime volte.
Mille. Ho fatto il pieno di tristezze inspiegabili,
di giorni lunghi e di domani che promettevano lusinghe.
Sono stata una donna dagli spigoli tondi che ha
perso suo figlio nel ventre e che per tanto tempo non ha saputo scegliere tra
il farsi abbrutire dal dolore o farsi nobilitare.
Ho combattuto contro il senso di inadeguatezza, il
senso di sterilità di chi crede di non riuscire a far passare la vita
attraverso nulla di se stessa, non dalle idee, non dalle mani, né attraverso la
memoria. Ma la fortuna di un’altra donna non è la mia sfortuna.
L’ho dovuto ricordare.
Ogni volta che rincorrendo un desiderio ho
addomesticato quel latente, subdolo, graffiante sentimento, simile alla
nostalgia, l’ho ricordato.
Ho vissuto altre mille vite, riempiendo i vuoti di
un universo bucato.
Ho amato, vissuto, viaggiato, riso, bevuto, amato,
amato, amato tanto.
Niente che possa, comunque, lenire la mancanza di te.