martedì 29 aprile 2014

Dove continua la notte


Il sonno dei bambini nei primi anni di vita è argomento di capitale importanza nelle conversazioni tra neo genitori. Sul sonno si concentra la maggior parte dell’interesse, dei loro discorsi che con aria spesso disfatta narrano di nottate in bianco e di cronica carenza di sonno. Amici e familiari, parenti e vicini gareggiano in consigli e pareri che spesso si dimostrano totalmente inutili.

Probabilmente perché nessuno di loro possiede le informazioni utili su come funziona realmente il sonno dei bimbi, l’alternanza delle fasi del loro riposo, la loro testa, i loro pensieri, la capacità di reagire agli stimoli esterni che disturbano i loro sogni.

“Il sonno degli adulti è composto infatti nell’80% circa da fasi di sonno profondo e solo un 20% da fasi di sonno leggero. I neonati (e i bambini fino a circa 3 anni di età, ma ognuno ovviamente ha i suoi tempi di sviluppo neurologico) hanno invece dall’80% al 50% di sonno leggero, e l’alternanza delle fasi di sonno REM e NREM avviene ogni 60 minuti circa. Ciò significa che i bambini nei primi 3 anni di vita attraversano ogni ora una fase di vulnerabilità in cui possono risvegliarsi con maggiore facilità perché non sanno ancora bloccare gli stimoli esterni che provocano il risveglio”.

 

Daniele ha sempre combattuto il sonno, affrontando battaglie interminabili per procrastinare il momento della fine della giornata.

E’ come me. La fine delle cose, anche di una giornata, gli da noia.

Perché costituisce la separazione dal giorno appena vissuto e da noi genitori, perché gli ruba il tempo prezioso per godersi la sua mamma, senza il lavoro di mezzo, senza distrazioni, o intralci. Così mi sfinisce con infiniti stratagemmi.

Spesso, mi addormento io prima di lui e ancora più spesso non riesco neanche a portarlo nel suo letto e lascio che il co sleeping prenda passo vantaggio.

Ma, guardarlo dormire, perfetto come un disegno perfetto, mi ripaga di ogni fatica.

 
Il sonno dei bambini è un posto incantato. Magico, fatato, dove non c’è spazio per i turbamenti. Un luogo che non conosce nessuna delle possibili contaminazioni della realtà. Il sonno dei bambini sospende il tempo, ci stampa nella memoria l’odore indelebile del loro respiro. Le braccia morbide e i pugnetti chiusi, il sorriso abbozzato di chi si sente al sicuro, protetto.

Il sonno dei bambini danza una ballata dolce che batte i colpi del cuore, il ritmo è quello dell’amore.

Io ti ho cullato per farti addormentare e tu dormi al ritmo del mio cuore.

E’ lì che volano gli aquiloni, o forse ballano i delfini, o forse le nuvole piangono per l’emozione.

Non lo so.

Vorrei entrare in quel sonno, farmi eterna per proteggerlo tra le pieghe di quel corpicino stanco e rilassato sussurrandogli che sì, al suo risveglio sarà tutto bello come il suo sonno.

Dormi, dormi, non preoccuparti. Sarò qui al tuo risveglio ferma ad aspettarti. Ti aspetterò con i tuoi tempi, con i tuoi passi a volte incerti, o le tue corse. Mi adeguerò ai tuoi ritmi, cercando di capire quelle tue parole buffe, anche quando mi fanno male.

Sono io, madre, che ti ho voluto. E sarò io ad aspettare i tuoi tempi, ad adeguare i miei ritmi a i tuoi, io che lavoro, che produco, che rispetto impegni, legami, orari imposti dagli altri e dalla quotidianità. Io, e non tu che, sogni solo di avere una giornata senza fine da dedicare a noi.  

 

lunedì 28 aprile 2014

A= non A


 
In un ragionamento logico la contraddizione esiste quando, partendo da determinati principi, si arriva a dimostrarne la falsità, rendendo ovvia la falsità dell'intero ragionamento.

In un ragionamento logico, appunto.

La filosofia dei ragionamenti di Daniele, tuttavia, arriva anche a negare la validità assoluta del principio di non contraddizione e, di conseguenza, ad affermare che nella contraddizione c'è verità, almeno in alcuni ambiti.

In sintesi, la verità delle sue contraddizioni è che sono una madre orribile che, però vorrebbe sposare, amandomi follemente.

Che poi, in ultima analisi è quello che pensa la maggior parte degli uomini delle proprie compagne, invertendo l’ordine cronologico delle cose. Si innamorano di donne che vogliono sposare che, poi si trasformano in donne orribili.

Secondo mio figlio, io passo dall’essere una mamma cattivissima, la peggiore nello specifico, fino ad essere la migliore, tra le principesse, nonché la sua sposa infinita, con una facilità tale che a noi le contraddizioni ci fanno un baffo. La mia crudeltà, non che la mia adorabilità sono piani così vicini che ne attraverso uno, per entrare nell’altro con la disinvoltura che, neanche una delle modelle più abili durante la settimana della moda a Milano.

 

Ora, io, in generale, per natura, non credo a quello che mi dicono/scrivono/sento se non supportato da diretta esperienza, approfondimento e una giusta dose di buon senso.

Sapevo quindi, delle difficoltà dei cosiddetti “terribili due anni”, che detto tra noi, di questo passo, potrebbero durare fino ai 24, sapevo della fase dei “no”, di quella della ricerca dell’indipendenza, di quella della scomposizione-ricomposizione dei legami affettivi sulla base della conquista e dell’affermazione della propria personalità, ma nessuno e dico nessuno, mi aveva preparato alle contraddizioni insite nelle dottrine filosofiche di un treenne, di fronte alle quali, giuro, anche Hegel o Kant, avrebbero rinunciato a comprendere.

 

 

 

 

 

martedì 22 aprile 2014

Com'è difficile crescere.


Claudia De Lillo, alias Elasti, mi piace tanto. Giornalista per D di Repubblica e Reuters, blogger, scrittrice e mamma, forse una delle più note del web, mi piace perché racconta “cose” con l’ironia tipica delle persone intelligenti che nascondono la profondità nell’immediatezza e la sensibilità tra le righe. Lascia sempre che l’emozione suscitata, resti lì appesa, tra un sorriso abbozzato e una sacrosanta verità.

Un suo articolo “ Quanti imbarazzi bisogna vincere per crescere bene” mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile “liberarsi progressivamente dagli imbarazzi, acquisire sicurezza, emanciparsi dal pregiudizio altrui” in poche parole, accettarsi.

Claudia descrive il bisogno di normalità di suo figlio, adolescente. Quel concetto di normalità, astratto e senza senso, proprio di chi, trovandosi in quella zona relazionamente persa, aspira all’invisibilità, alla trasparenza, all’uniformità ad un branco che dia sicurezza.

Il concetto di normalità”tanto rassicurante, quanto astratto e inesistente, è un’ambizione legittima dell’infanzia e dell’adolescenza, perché crescere, è un’attività impegnativa, insidiosa, che necessità anonimato più che le luci della ribalta”.

Poi, Claudia descrive gli imbarazzi vissuti da adolescente, le cose per cui provava vergogna e dalle quali, in fondo, nessuno si emancipa mai, del tutto.

“Io, da ragazzina, mi vergognavo di avere genitori separati, di chiedere informazioni per la strada, di uscire di casa con il mascara, e, qualche anno più tardi, di uscire di casa, senza, di ammettere di non avere fatto né la cresima, né la comunione, di rivelare le mie origini ebraiche, di dire che mia nonna era comunista, di interagire con le commesse dei negozi di abbigliamento, di chiedere scusi dove è il bagno? di indossare scarpe che mostrassero le dita dei piedi, di comprare gli assorbenti, di stare al mondo…Poi la vita si complica da sola, anno dopo anno,senza  bisogno di paturnie auto inflitte”.

Così si cresce, si impara la giusta dose di sicurezza per scoprire le dita dei piedi, comprare gli assorbenti, mettere gli occhiali, anche se rimane sempre un certo disagio, nell’indossarli.

Questa cosa dei piedi mi ha fatto molto ridere, perché per anni ho nascosto i miei, senza un reale motivo.

Da ragazzina sono state molte le cose per cui ho provato imbarazzo. Una schiena con la scoliosi, un gesso, un busto, un seno grande, un senso di inadeguatezza latente. Mi vergognavo di  essere poco interessante o esserlo troppo, di chiedere informazioni, di essere foglio bianco su cui dover scrivere. Di essere triste, di non avere mio padre.

Quella vergogna e quell’ansia di normalità, le ho incontrate la prima volta lungo il ponte che trasporta dall’infanzia all’età adulta. Mi sono appoggiata ai lati negativi di una zona di passaggio e transitorietà, provando crisi e disagio che ho combattuto, vincendo e perdendo a fase alterne.

A volte, quando le mie fragilità mi inchiodano davanti a specchi nudi, prendono di nuovo forma, aggredendomi come allora. 

 

“Cercate di fare i normali” chiede il figlio di Claudia, perché imbarazzato da tutto quello che non controlla.

Ed è difficile controllare un corpo che cambia, ormoni che scalpitano, la vita che pulsa. E’ difficile contenere l’imprevedibile.

Mi viene in mente quella storia sul passare del tempo: che a venti anni te le prendi perché o sei troppo o troppo poco, a trenta, pure, a quaranta lo accetti, a cinquanta ti ci abitui, a sessanta interroghi di meno, a settanta, non ti interroghi più, a ottanta te ne fotti e ridi.

Non so se sia davvero così.

Mia mamma mi dice che soffre ogni giorno nel vedere che gli anni consumano la sua vita ed il suo corpo, anche se non perde troppo tempo a crogiolarsi.

E allora quello che hai invocato più di ogni altra cosa nell’adolescenza, la normalità e l’invisibilità, è invece, proprio quello che speri non lasciare dietro di te.

Ti auguri, invece, di essere stato a tuo modo, unico, speciale, almeno per qualcuno, almeno per chi ti ha amato.

Se solo avessi saputo che, chi mi ama, ama anche i mei piedi, avrei messo molti, ma molti più sandali.

Forse, nelle mie giornate sì, li avrei messi anche se chi mi vuol bene, non li avesse amati.

 
La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.

 
La grande bellezza.

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 16 aprile 2014

Di chi sono i nostri figli?


La dichiarazione dell’incostituzionalità del divieto dell’eterologa insieme al presunto scambio degli embrioni all’ospedale Pertini di Roma, riaccende i quesiti sull’universo della procreazione assistita.
A dire il vero, interesse mai sopito per le persone che questo universo lo vivono, lo annusano, ci fanno i conti tutti i giorni.

Finalmente qualcuno, oltre a noi, si accorto che tutto l’impianto che ruota attorno a questo mondo è vecchio, polveroso e non sa rispondere alle domande più intime.

Lo scambio degli embrioni al Pertini polverizza anni di dibattiti, accende gli animi, rimette in discussione la fecondazione assistita, l’eterologa, i concetti di maternità e di paternità.

L’uscita di un film “Fhater and sun” film giapponese che, inchioda a riflettere sulla potenza dei legami  affettivi su quelli biologici, ci smonta come pezzi di puzzle.

Fermo restando che, sento una pena infinita per la madre, presunta genitrice biologica degli embrioni impiantati nell’altra donna per sbaglio, la cui gravidanza è andata male, sono sempre più convinta che “la legge del cordone ombelicale batta quella del dna”.

Genetisti e giuristi sono concordi nell’affermare che il legame affettivo conta molto di più di quello biologico.

In “Father and sun” la vita di una coppia viene sconvolta dalla telefonata dell’ospedale che confessa un errore gravissimo: il figlio di sei anni non è il loro figlio naturale.

Il figlio “allattato, cresciuto, accompagnato, istruito, non è biologicamente loro. Non ha lo stesso dna”.

Fermiamoci.

Chi di noi ha un figlio si deve fermare, guardarlo e chiedersi, con la pulizia nel cuore, se, cambierebbe qualcosa nell’amore provato per lui/lei, sapere che non ha il nostro stesso dna.

No. La risposta è no. Non cambierebbe niente. E soprattutto non cambierebbe niente per lui/lei.

Lo scambio d’amore ininterrotto, la consuetudine d’amore, il riconoscersi anche solo annusandosi, se ne fotte della domanda, se siamo figli del sangue, della cultura o di entrambi.
Mia madre è mia madre.

Per la legge italiana “la madre è sempre colei che mette al mondo il bambino. E il padre, in quanto marito della donna, diventa genitore del nascituro.

Nel mondo sempre più complesso della medicina procreativa, della necessità di dare risposte serie, reali e certe ad interrogativi importanti, ritorna, come il ritornello di una nenia atavica, sempre la stessa domanda: quali sono i veri genitori, quelli che allevano o quelli da cui si discende, mamme di pancia o mamme di cuore, mamme biologiche o mamme adottive?

I figli sono di chi si assume la responsabilità di metterli al mondo, indipendentemente dal come. Di chi gli ricostruisce un passato, quando non lo hanno, di chi gli assicura un futuro. Di chi li ama più di se stessi, al punto da essere disposti a rinunciare al bisogno atavico di riprodursi per lasciare una traccia della propria specie. Come lo farebbe un’animale.

Nessuno può dirci cosa voglia dire esattamente essere una madre o un padre. Se possa dipendere dal dna o se siano le ore, i giorni che si fanno tempo liquido, quello dedicato attimo dopo attimo, minuto dopo minuto, a costruire una “consuetudine d’amore” a renderci tali.

Possono esserci tante, tante domande, ma non può esistere una risposta unica. Perché tutto dipende da come si è dentro.

Esistono percorsi, esistono le persone e i propri concetti di maternità e di paternità.

Ma esiste un solo concetto di amore.

Io, so solo che mio figlio è mio, e lo sarebbe anche se avesse il dna di un alieno, o fossi andata direttamente su Marte a prendermelo per portarmelo qui.

Invito tutte coloro che sono già madri a fermarsi davanti al proprio figlio e chiedersi se davvero cambierebbe qualcosa, sapendo che il proprio figlio, magari è stato scambiato nella culla, o ha il patrimonio genetico di un’altra.

Le invito a riflettere, ad ascoltarsi ed ascoltare il proprio cuore. E soprattutto ad ascoltare il cuore del proprio bambino. Come potrebbe vostro figlio rinunciare alla propria mamma o al proprio papà?

La donna che oggi pretende la restituzione degli embrioni che porta nella pancia l’altra mamma, soffre. Soffre terribilmente, per un errore, per una beffa del destino, per la tragica traiettoria che ha preso la sua vita e nessuno la risarcirà di tutto il dolore.

Ma la fortuna, duramente compromessa di un’altra, non può e non deve essere la propria sfortuna.

Lo ha detto una grande donna dal cuore rotto che ancora ama.

Quei bimbi, sono di chi li porta in grembo.

Tutto questo dolore, amplificato dai media e dai social network, rischia di creare un clima di confusione sulla fecondazione assistita che, è e rimane un percorso sicuro, a fronte dei numeri e delle statistiche.

Mi auguro solo che la riflessione sulla legge 40, non venga strumentalizzata ed inficiata da episodi, terribili, ma rari.

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 14 aprile 2014

Tre anni di sole.


C’è una foto grande di una mamma con un bambino affissa sulla vetrina di un negozio del centro davanti al quale passo ogni mattina. Prenatal, per la precisione.

Nella foto, madre e figlio stanno attaccati guancia a guancia. Lei è molto bella, il bimbo, bellissimo.

Stanno lì, da più di tre anni, appiccicati. Mi ricordo di me, incinta che, passando, mi fermavo a guardarli e pregavo che mio figlio nascesse sano e bello come il bimbo nella foto.

Qualcuno deve avermi ascoltata. Anzi, ha fatto di più.

Ho spiegato a mio figlio che, quando era nella mia pancia, ogni volta che passavo, salutavo quella mamma e quel bimbo e immaginando che un giorno, io e lui, saremmo stati così.

Guancia a guancia.

Ora, quando passiamo, lui guarda la foto e mi dice: “Guarda, mamma, siamo tu ed io.”

Arrivo in ufficio sempre con due occhi gonfi e pieni di lacrime.

I miei colleghi devono pensare che sono esaurita, o che mio marito mi tradisce o che ho una vita molto triste.

Avrei voluto fartela io la torta di compleanno, azzurra e con i pirati come invece l’ha fatta papà.

Avrei voluto che il giardino su cui hai scorrazzato tutto il giorno, fosse quello della nostra casa, invece dei sessantacinque metri quadrati in cui invento oceani e tempeste.

Ma è stato un giorno bello e pieno di sole.

Il verde dell’erba è stato più verde, le margherite più aperte.

E quando la sera mi hai chiesto di cantarti “lalalù” rivisitata e corretta, canzoncina che cambio ogni volta perché non ricordo la versione precedente, dicendomi che è la ninna nanna che preferisci, ho creduto di toccarlo quel sole che mi regali ogni giorno.

Tanti auguri, principe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 10 aprile 2014

Incostituzionale



Incostituzionale il divieto di eterologa.

Finalmente la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge 40 che vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi.
Finalmente.
Un grande passo in avanti verso la democrazia.
Verso lo sviluppo civile di un paese che ha trovato nella legge 40 l’atto antidemocratico per antonomasia.
Verso la speranza per molte, moltissime coppie che intravedono una luce alla fine del loro tunnel nero.
Una mia amica lo definisce un addio e una smisurata preghiera.
Un paese che garantisce diritti fondamentali è un paese che garantisce diritti fondamentali per tutti. Indipendentemente dal fatto che si possa pensare “tanto a me non interessa perché non mi capiterà mai una cosa del genere. Tanto non mi interessa perché io un figlio ce l’ho. Tanto non mi interessa perché se penso poi, sono costretto a prendere decisioni”.
E’ stato abolito il cuore proibizionista di una legge vecchia, obsoleta, cattiva. Una legge che ha bloccato la scienza e la tecnologia, studi scientifici importanti, uccidendo i sogni e gettando nella disperazione tanta gente.
La gente, quella non coinvolta, quella che non legge, quella che si accontenta di ciò che le dicono e bela senza rendersi conto non ha capito quanto male abbia fatto questa legge.
Non ha capito che, indipendentemente dall’essere vicini o lontani al desiderio di maternità, questa legge è stata una profonda ingiustizia che ha vietato scelte di vita fondamentali.
Non posso accettare che sia un uomo stolto, un politico ipocrita, finto credente che imponga a molti, senza conoscere, senza sapere, come concepire, morire, come vivere.
Fregandosene degli altri, fregandosene delle persone, dei desideri, della libertà di scelta. Che per accaparrarsi una parte dei voti della comunità non laica, accarezzando la testa dei propri figli, giudica facendo finta di credere che il problema dell’infertilità sia un problema di pochi e legifera e sparla senza neanche conoscere la materia, i numeri, le statistiche, la verità di una società biologicamente vecchia, socialmente giovane, disperatamente in cerca di risposte concrete e consapevoli.
Già sento in giro alcune dichiarazioni aberranti dei nostri politici e dei nostri ministri. Parlano del bisogno di affrontare un problema complesso. Dicono che una materia così sensibile non possa essere affrontata con semplici decreti.
Davvero?
E dove eravate voi in questi dieci anni quando le persone sempre più numerose, sempre più preparate, ogni giorno più preparate, chiedevano risposte a nuovi interrogativi, chiedevano di affrontare la materia in maniera adeguata?
Dove stavano tutti quelli che oggi giudicano senza sapere, senza comprendere?
Alcuni parlano di grave attacco alla famiglia, al diritto del nascituro di nascere da genitori naturali.
Fortunatamente, per me, per molti, quello che ad altri sembra osceno a me pare cielo e poesia.
Non spenderò alcuna parola nei loro confronti. Non valgono neanche una sillaba.
Oggi è un grande giorno, per tutti, indipendentemente dalla scelta personale di ricorrere ad una forma di concepimento piuttosto che ad un'altra.
Spero solo che questo paese sia in grado di capirlo.

lunedì 7 aprile 2014

Educare=reprimere?


 Succede che, nella mia città, la polizia entri con cani antidroga dentro ad un liceo, con il permesso del preside che, acconsente all’operazione e che, un professore si rifiuti di far entrare la squadra nella sua classe.

L’unico.

Ovviamente, essendo il genere umano una categoria assai bizzarra divampa sul social network una campagna denigratoria, non contro l’azione repressiva (come ci si sarebbe dovuto aspettare secondo il buon senso) bensì, contro il professore che, all’occhio di molti è sembrato uno che vuole uscire fuori dal coro e farsi pubblicità a discapito di un controllo, ritenuto da molti, virtuoso.

Capiamoci subito su una cosa. Niente da eccepire se l’azione fosse stata fatta fuori dalle porte della scuola.

Magari ci fossero più controlli, alle uscite.

Il punto è che, invece, l’esercizio dell’autorità sia stato svolto in un luogo che, per antonomasia, dovrebbe rappresentare uno spazio inviolabile, il posto dell’educazione e non della soppressione, del dialogo piuttosto che del mettere a tacere con la forza, del confronto, del nascere delle idee, dell’istruire, del formare, dell’insegnare. Certamente anche del dare regole. Ma nessuna buona regola si offre senza il buon esempio.

C’è stato un tempo in cui tutto il sapere passava per questa istituzione. Oggi, per ovvie ragioni e grazie a Dio, aggiungerei, non è più così. Il sapere arriva da ogni dove. Si apprende in modi diversi. Dal web, dagli altri, dalla tv, dai giornali, dai libri, dai viaggi. Ma non viene tolto, sempre grazie a Dio, alla scuola il dovere di strutturare le varie forme di sapere, di organizzarle, di renderle accessibili e confrontabili.

La scuola è il luogo deputato alla crescita, risponde a domande, bisogni. Dalla scuola dipendono la formazione culturale e professionale delle nuove generazioni, la loro creatività come la loro capacità di fare innovazione e di partecipare attivamente a un mondo in trasformazione. Insieme con tutto questo la scuola contribuisce ai processi di mobilità sociale, a far crescere e valorizzare i talenti, a rendere possibile l’integrazione sociale in realtà profondamente segnate dalla presenza di comunità di origine straniera che spesso restano emarginate. Ma la misura dei suoi risultati dipende anche dall’attenzione che la comunità riserva a essa, dalle risorse e dalle attese, dal sostegno, dal riconoscimento e dalle domande che la città nelle sue diverse componenti, a partire dalle famiglie, dal mondo delle imprese, dalle istituzioni pubbliche, dall’università e dalle altre agenzie culturali, riversa su di essa.

E allora mi chiedo, che tipo di comunità è quella che accetta, anzi giustifica che una squadra di polizia antidroga entri in una classe, interrompendo la lezione per annusare gli studenti e stanarli nel caso in cui portino in tasca una canna?

Non vedo nessuna forma di educazione in una scena così violenta se non quella della pubblica gogna, che, oltre  a sporcare la fedina penale a un ragazzo, lo allontanerà dal concetto di giustizia innescando meccanismi devianti.

Siamo davvero una società malata. Raccogliamo i frutti del troppo amore, li mastichiamo e poi sputiamo proprio sui piatti in cui abbiamo appena mangiato.

Noi genitori viviamo costantemente sotto processo. Non siamo mai abbastanza, o siamo troppo o troppo poco, visibilmente in deficit di autorità, specularmente alle istituzioni scolastiche e alla “deregulation” dei modelli educativi sani, sociali, culturali e politici. Gridiamo agli scandali ma poi li giustifichiamo o ce ne dimentichiamo.

Ma davvero pensiamo che per trasmettere i valori civili, la differenza tra il bene e il male, la vita, con i suoi pericoli e le sue bellezze, ci sia bisogno di far entrare in una scuola delle squadre antidroga?

Davvero crediamo che reprimere sia meglio che insegnare a capire, a comprendere?

Mi sto perdendo.

Da una parte vedo genitori che lasciano correre troppo, non mettono limiti, scarseggiano di no e permettono più del dovuto, disposti a giustificare le malefatte dei politici, disposti a derogare alle cose piccole in cambio, magari, di piccoli favori, di piccoli vantaggi. Magari neanche se ne rendono conto che non pagando le tasse, o chiedendo un piacere per se stessi, contribuiscono a trasmettere modelli sbagliati. Che evadere il fisco non significa essere più furbi degli altri, ma semplicemente più delinquenti e che così facendo contribuiscono a livellare i servizi, a rendere la società meno civile e culturalmente arretrata. Dall’altro, poi, applaudono operazioni dittatoriali.

Qualcuno si sentirà anche sollevato sul fatto che, sempre magari, ci ha pensato la polizia a dargli una bella lezione. Lezione che, invece, è compito di un genitore dare.

C’è una contraddizione alla base che la dice lunga su quanto costi, emotivamente e personalmente educare.
 

Non so come la pensiate voi, ma a me, certe incursioni ricordano tanto i pestaggi da macelleria messicana avvenuti nella scuola Diaz.