venerdì 27 dicembre 2013

L’antidoto al dolore


-Perchè piangi?
-Mi entrata una cosa negli occhi.
-Cosa?
-Un ricordo


 
Ho letto una lettera, divinamente umana.

Una donna che, crede nelle lacrime, piange irrimediabilmente per le parole dette a chi ora non è più con lei. Quelle parole, dette per nervosismo, stanchezza, finta cattiveria, o Dio solo sa cos’altro, restano lì come pietre. Macigni che forse non sono veramente pensati ma irrimediabilmente detti. E ingrossano una distanza abissale tra chi resta e chi se ne va. Perché lui non può più sentire che lei vorrebbe chiedergli perdono. Lei si sperde in un’insopportabile vita senza, con un rimorso che non le da pace, un’insopportabile senso di inutilità e un vuoto incolmabile da gestire. Non le piace più vivere senza di lui e non sa e forse non vuole reagire.

Questi giorni felici, per molti possono essere strazianti.

Le feste possono essere calore ma anche freddo glaciale.

La perdita di una persona amata che tutti, prima o poi proviamo, questo dolore immenso che ci sperde e ci rende randagi nel vuoto, senza un corpo cui appartenere, senza un senso cui aggrapparsi ci inchioda a una scelta.

Tutti abbiamo detto parole che non andavano dette, tutti abbiamo momenti di fastidio, di stizza, di rabbia.

E ci puniamo ricordandoci quello che avremmo potuto dire e non abbiamo detto o quello che avremmo dovuto tacere e invece, abbiamo gridato. Ci sembra che, se non avessimo detto quelle parole ferendoci l’un l’altro, la persona amata sarebbe ancora vicina a noi e forse, avrebbe deciso di non andarsene rinviando il distacco, come per uno strano accordo con la morte.

Forse è una forma di protezione nei confronti della vita che, nonostante tutto continua a fluire, come acqua che rinnova, che scorre.

E’ qui che viene la scelta.

Continuare a credere che, nonostante il dolore la vita possa riservare ancora sorprese, stupore, tenerezza o chiudersi e piangere sulle parole dette.

Nel secondo caso i ricordi sono nemici, nel primo alleati.

Capita che, tornando a casa io voglia cercare di sentire la vita con chi amo, che sia mio marito, mia madre, mi fratello, mio figlio o l’amica che mi ha deluso più delle altre, nella speranza di vivere questa vita ancora insieme, e ancora e ancora, inghiottendo le parole come bicchieri di bicarbonato quando sono dure da digerire. E se proprio dovessero scapparmi come pulci dal circo, cercherò di chiedere perdono.

Un buon antidodo al dolore.

 

 

martedì 24 dicembre 2013

Buon Natale

Buone feste, buon Natale, buoni momenti di luce.
Auguri, che il vostro albero nasconda tra i rami, tra desideri ed attese, giorni speciali.
O la forza per renderli tali.
Vi abbraccio forte.

giovedì 19 dicembre 2013

Cinquanta sfumature del bianco natale


Io sono innamorata, persa.

Fradicia. Rapita, stregata, cotta.

Di quelle che pensano che il proprio figlio sia l’incarnazione della bellezza. L’eccezione che si fa regola, il ponte tra il finito e l’infinito. Me lo guardo, me lo annuso, se potessi, me lo mangerei a morsi.

Conosco ogni curva, ogni segno che il tempo sta incidendo sul suo corpicino. Il livido sotto il ginocchio destro, le fossette sulle guance. Potrei disegnare a occhi chiusi il suo visino.

Possiede una delle caratteristiche che più amo nel genere maschile, fa ridere.

Quando fa una marachella e beccato guarda in alto come faceva Carlo Verdone, quando tira fuori vocaboli improbabili, quando guarda il cane mentre fa la popò e storce il naso perché “pussa, bleah”, quando mi chiede se io e lui siamo amici. Mi racconta le “avole”, lui, a me. Cominciano tutte con c’era una volta, c’è sempre un lupo “attivo-attivo” che, di solito si scotta il culetto cadendo nel camino. E poi c’è lui, che di solito salva la principessa che, di solito, sono io. C’è anche dell’altro, ma non sempre lo capisco.

 

Sto imparando (meglio tardi che mai) che, il detto “i bambini sono come spugne” è vero come vera è l’alba ogni mattina.

Attenendomi al buon senso e ispirandomi ai migliori principi pedagogici cerco, con rigore, di dare il buon esempio.

Cercare non significa, riuscire.

Tento di parlare un italiano corretto in sua presenza, cerco di usare sempre un tono di voce calmo e costante, mi trattengo dal lanciarlo fuori dalla finestra quando, testardo come il più ostinato dei muli, si rifiuta di seguire una regola, tento di trovare il giusto compromesso tra insegnare e comprendere, inseguo fantasia e raziocinio, volo insieme con lui su ali inventate, con i piedi ben piantati nel cielo e la mente, oltre.

E’ difficile, è un esercizio quotidiano di complicata acrobazia.

E’ anche peggio dell’assemblaggio dei mobili Ikea, se possibile.

Almeno, in quel caso, uno straccio di libretto delle istruzioni nella scatola imballata lo mettono.

Comunque, mancando la formazione di base, spesso si va a braccio. Magari con tutte e due le braccia, magari anche aperte e con tutta l’anima nel mezzo.

In questo periodo a casa nostra Babbo Natale si è espanso.

Questo nonno dalla pancia grossa e dal cuore immenso che accoglie e racchiude, trattiene i desideri per ventiquattro giorni l’anno e rimanda un atto di amore e di fiducia per il resto del tempo, questo nonno che nel mio immaginario di bambina rappresenta il magico e in quello di donna la speranza, l’attesa, la voglia di credere ancora ed ancora, a casa mia ha già assunto diverse sfumature.

La tonalità migliore, il panciuto grassone l’ha assunta ieri pomeriggio in un negozio di abiti del centro della mia città, quando nel bel mezzo di un capriccio, mentre la proprietaria amorevolmente spiegava a mio figlio che per il suo bene, era meglio che si rimettesse il piumino tolto per giocare e facesse il bravo, altrimenti nessuno gli avrebbe portato dei doni, mio figlio, guardandola dritta negli occhi ha impallidito una delle possibili sfumature di santa Klaus asserendo con convinzione e consapevolezza e una precisa bravura nella contestualizzazione:” Azzo di idiota etto Abbo Atale…”

Serve la traduzione?

 

lunedì 16 dicembre 2013

Il sognatore


 

Il mondo è un luogo raccontabile.
Lo puoi narrare con le parole, lo puoi scrivere con la luce, lo puoi sussurrare con le emozioni.
Una mostra allestita presso il Museo Nazionale Alinari della Fotografia di Firenze mi ha fatto scoprire Izis Bidermanas,fotografo lituano (1911-1980), conosciuto come il “sognatore” capace di raccontare la poesia in un’immagine. Racconta una Parigi di straordinaria bellezza (ma anche altri luoghi) vista attraverso scatti evocativi, onirici...di un'altra epoca.

“Attraverso una selezione di circa 120 fotografie curata dal figlio Manuel Bidermanas con Armelle Canitrot e tramite la proiezione del film
“Aperçus d’une vie (Scorci di vita)”, presentato in esclusiva a Firenze in occasione della mostra, il MNAF offre l’occasione di una vera e propria scoperta dell’intensa attività di questo autore dalla vita tormentata.
Di origine ebraica, soprannominato sin da piccolo “il sognatore“, nonostante il padre lo spinga a lavorare come falegname, Izis diventa ben presto apprendista fotografo, lasciando la sua città natale, Marijampole, per lavorare in altre città della Lituania. Si trasferisce poi in Francia, attratto dalla frenetica vita artistica parigina. Lì vivrà momenti difficili, cambiando molti lavori e non riuscendo ad esercitare la sua attività di fotografo. Negli anni del nazifascismo, la sua famiglia viene sterminata in Lituania, mentre Izis, che nel frattempo si è sposato, è costretto a rifugiarsi con moglie e figlio nella zona libera di Ambazac, vicino Limoges. Solo tre anni dopo, nel 1944, dopo essere sfuggito ad un arresto da parte dei tedeschi, Limoges viene liberata e Izis inizia l’attività di ritrattista che lo caratterizza, fotografando i partigiani che escono dalla clandestinità in scatti densi di pathos.
Da quel momento non si ferma più: nel 1945 inizia una collaborazione, destinata a durare venti anni, con la rivista Paris Match, realizzando numerosi reportages a partire dal primo numero. La sua attività di fotografo si contraddistingue per i numerosi ritratti a scrittori e artisti del tempo e la pubblicazione di libri inerenti l’arte fotografica, considerati delle vere e proprie pietre miliari. Izis sarà inoltre per tutta la vita molto affascinato dal mondo circense, che immortalerà in scatti celebri. A dimostrazione dell’enorme stima di cui godeva, è stato l’unico fotografo ammesso da Marc Chagall, negli anni tra il 1963 e il 1964, durante la realizzazione del soffitto dell’Operà di Parigi, città nella quale muore nel 1980.
Le sue fotografie, con il taglio affilato della luce e la loro particolare sensibilità all’atmosfera – caratteristiche che le rendono immediatamente riconoscibili – sono sì il frutto di un’anima segnata dall’esilio e dalle molte difficoltà, ma anche di un’anima che ha sempre trovato nel sogno il magico luogo del riscatto. In bilico tra dimensione onirica e realtà, gli scatti di Izis catturano per la loro natura poetica, che induce lo spettatore a interrogarsi sul dialogo esistente tra l’immagine e la parola e a ricercare la coerenza tra soggetto, emozione e forma”.
Dal 7 settembre 2013 al 6 gennaio 2014 al MNAF - Museo Nazionale Alinari della Fotografia la mostra del fotografo francese Izis Bidermanas "IZIS. IL POETA DELLA FOTOGRAFIA".
Se siete in zona, andateci…


Orario di apertura
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 18.30
Mercoledì chiuso

Biglietto di Ingresso
Intero 9,00 euro
Ridotto 7,50 euro
Scuole 4,00 euro
Gratis bambini fino a 5 anni


MNAF - MUSEO NAZIONALE ALINARI DELLA FOTOGRAFIA
Piazza Santa Maria Novella 14a r - Firenze
Telefono 055.216310 - Fax 055.2646990
 





 

 

mercoledì 11 dicembre 2013

Le vite sospese


Carlo Verdelli scrive oggi su Repubblica un articolo inquietante che mi colpisce, mi angoscia e mi rende fragile tra i fragili.

Parla delle vite sospese di chi è scomparso e di chi resta che, non può elaborare un lutto perché un lutto non c’è.

Sono ventisette mila gli scomparsi in Italia, duemila negli ultimi due anni. Sono bimbi, ragazzi, mamme, mariti, mogli. Delusi arrabbiati, disoccupati. O piccoli ingenui irretiti da un orco. Molti bimbi nati da matrimoni misti rapiti da uno dei genitori e portati nel paese di origine dell’uno o dell’altro genitore.

Tutti caduti in un buco nero che toglie pace all’anima di chi resta. La scomparsa di persone care consegna i parenti a un’angoscia perenne. Il non sapere che fine possa aver fatto un figlio, un fratello, un marito, è peggio di saperlo morto. Nessuna tomba su cui piangere, niente di niente. Non hai possibilità di elaborare la perdita, non hai notizie, non sai se e come quel figlio, quella sorella, quella moglie o madre, o padre, viva o non viva più.

E’ terribile. E’ umanamente insopportabile.

Dove spariscono quelli che spariscono? Quale orrendo orco, fantasma, drago se li è presi?

Sono persone dalla vita apparentemente normale che escono di casa per non farci più ritorno.

Molti, moltissimi sceglie di sparire, circa il 70%, molti hanno problemi di salute legati alla memoria, molti sono bambini o adolescenti nella fase più delicata della loro vita che, non trovando risposte ai loro interrogativi, pensano che la fuga sia l’unica soluzione. Fuga da chi, da cosa?

Il fratello maggiore di Elisa Claps ha fondato l’associazione Penelope http://www.penelopeitalia.org/ associazione Nazionale delle famiglie e degli amici delle persone scomparse che istituisce un apposito servizio di assistenza legale in favore dei familiari che siano impegnati nella ricerca dei propri cari.

Quello di Elisa è il caso più eclatante tra le persone scomparse e serve forse a farci riflettere sul silenzio della Chiesa e di chi ha volutamente cercato di mettere a tacere il grido disperato della famiglia.

Ylenia Carrisi, figlia di Albano e Romina scompare nel 1994, nel 1996 Angela Celentano, scomparsa sul monte Faita a 3 anni, Denise Pipitone a 4 anni scompare a Mazara del vallo nel 2004.

Questi i casi più conosciuti. Ma sono tantissime le persone scomparse, un esercito silente che ingrassa le sue fila senza rumore.

Dal 2012 la legge italiana riconosce la figura dello scomparso, ma manca una banca centralizzata dei Dna. Dal 2007 esiste un commissario straordinario del governo per le persone scomparse, ci lavorano 13 persone, tra amministrativi ed operativi.

I circuiti degli scomparsi sono circuiti di sofferenza estrema, solitudine, ascolto non ricevuto.

Un imbuto nero, uno scivolo nel nulla che mi terrorizza.

So che questo mio post è duro, schietto, cattivo e forse fuori luogo e tempo rispetto al periodo più dolce e lieve dell’anno.

Ma forse, proprio per questo mi inchioda a chiedermi e chiederci quanto realmente sappiamo di queste vicende e a pensare a quale Natale è rimasta appesa la vita di queste persone, sospese.

Chiedo una cosa in meno per me in cambio di un ritorno.

Queste sono il genere di cose che non si dicono e si pensano e basta, magari però, pensandole in più persone è possibile che un miracolo avvenga.

 

venerdì 6 dicembre 2013

Madiba Mandela



Non mi giudicate per i miei successi ma per tutte quelle volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi.

Sembra sempre impossibile finchè non viene realizzato.

giovedì 5 dicembre 2013

Tre decenni



C’è stato un tempo in cui non riuscivo neanche a respirare. Boccheggiavo in cerca d’aria come un pesce spiaggiato. Potrei dire anche il giorno e l’ora in cui è cominciata a mancarmi l’aria. Il tempo attutisce le emozioni ma non rende meno brutali i ricordi. E’ stato quando, il mio secondo fidanzato mi ha lasciato.
Di fidanzati, quelli veri voglio dire, ne ho avuti tre. Di questi uno è mio marito. 

Quindi direi che, considerato che siamo insieme da dieci anni, i precedenti dieci li ho passati con il mio secondo, mentre i primi, non proprio dieci, esattamente sei con il primo.

 Il mio primo ragazzo rappresentava tutto ciò che una madre non vorrebbe per la propria erede. Una buona palestra per la gestione di corna e tradimenti, una condanna per la costruzione della propria autostima. 
E’ stata così compromessa la fiducia in me stessa che, dopo, mi sono cercata nella relazione all’esterno piuttosto che trovarmi dove ero sempre stata. In me.
Lui era un fighetto scanzonato, con grandi occhi verdi, sicuro e faceva ridere. Io avevo da poco perso mio padre, ero chiusa e avevo voglia di ridere. Poi ci hanno legato cose dolorose che per il semplice fatto di averle vissute insieme, ci fanno nodi dello stesso pettine. Cose più grandi di noi, cose dure. Oggi il verde dei suoi occhi è molto più spento di un tempo nonostante una famiglia bella e acqua sporca sotto ponti che si fanno prepotentemente intelaiatura tra passato e futuro.

Ho creduto fortemente che il mio secondo fidanzato fosse l’altra metà di me. Quella con cui formi un intero, quella che credi ti appartenga prima di esistere, quella per cui, pensi di essere destinata.
Interiorizzi cos’ tanto l’idea di amare una persona al punto di arrivare a credere che la sua pelle sia la tua, il suo odore, il tuo e torni a essere un solo corpo, riunendo e parti scisse di te stesso solo attraverso le sue mani.
E quando le perdi quelle mani, stai talmente male che credi che difficilmente potrai stare peggio e ti accorgi che puoi sempre sbagliare. Si può stare anche peggio di peggio.
Quando mi ha lasciata, dopo dieci anni, dopo una casa acquistata, dopo un futuro solo immaginato, senza tante parole, che poi non è che ci fosse tanto da dire tranne il fatto di non amarmi e più e di amare un’altra, ma se lo avesse detto così, forse mi avrebbe risparmiato un po’ di analisi e meno pippe mentali su cosa non avevo visto e cosa non avevo capito e cosa non ero in grado di essere. Ma vabbenecosi, sono diventata così sottile dento e fuori che lo spessore di un foglio di carta mi avrebbe potuta ricoprire come un pile.
Ridiventare foglio bianco e riscriversi nuovamente non è stato facile. Ovviamente ho fatto quello che sapevo fare, o meglio non sapevo di saperlo fare. Ho scritto Il mio primo libro, Resta, dove sei.
 Oggi non so, dove lui sia, in quale pezzo della strada che ha scelto si trovi. E non è vero che a volte ritornano. So solo che, come dice Enrica Tesio in http://tiasmo.wordpress.com/2013/12/04/i-giorni-si-e-i-giorni-no-oggi-no/, c’è stato un tempo in cui speravo di vederlo, truccata,  bella,  nella speranza che mi vedesse e si mangiasse le mani per avermi lasciato. 
E quando te lo rincontro? 
Tornata da una corsa, rossa paonazza in faccia, i capelli sporchi legati alla meno peggio, con una maglia lunga e larga della nazionale di rugby del Sudafrica, piegata a ritrovare il respiro perso lungo il tragitto della corsa  e sopra le quindici Marlboro che all’epoca fumavo e mi scappa solo  un ansimante ”ciao”.  
 E tutte le cose che per anni avrei voluto dirgli, tutte quelle rimaste a mezz’aria perché non me ne ha dato l’opportunità, rimangono solo un nodo in gola che deglutendo, svanisce. Resta solo la maglia del Sudafrica, lunga e larga che, spero lui mi abbia invidiato come un ragazzino alle elementari mentre,  gongolando mi allontano e sorrido perché io so che quella maglia è un souvenir riportato dal viaggio di nozze con il mio amore vero.
 E non mi importa più dirgli cose.

Ma cazzo, almeno potevi dirmi che era bella quella maglia.

Di fatto non so come siano passati questi decenni, non me ne sono neanche accorta. Mi sembra ieri che, sui banchi di scuola ci promettevamo il futuro, ieri che compravo cose verdi per una casa che non è mai stata abitata, ieri che mio marito mi aiutava a salire le scale della sala della pinacoteca dove ci siamo sposati, io fasciata nel mio abito cambogiano con un nastro arancione sul polso, lui con l’emozione nella gola e il nostro cane con il papillon rosso.
Com’è che mi ritrovo qui, ad accarezzare i ricci biondi di mio figlio e mi sembra ieri che…

mercoledì 4 dicembre 2013

Mai più senza mascara


Quando ti rendi conto che c’è qualcosa che non va nel tuo sguardo e che, non è per via della miopia che ti vedi l’occhio spento, sappi quarantenne che, quell’espressione diversa stampata sul volto è dovuta con molta probabilità a una palpebra, svenevole.
La palpebra fiacca è cosa ben diversa dallo sguardo languido. Sono agli antipodi come il giorno e la notte, il sole e le stelle.
La palpebra stanca è dotata di forza centripeta propria, tende verso il basso. Non puoi farci tanto o la raddrizzi con qual cosina di invasivo o lei sarà ogni giorno un po’ più pigra.
Riposare aiuta, ma non fa miracoli.
Un tempo mi dicevano che avevo occhi da cerbiatta.
Uhm, modello Bamby?
Oggi il mio collega che, mi conosce da qualche tempo mi ha detto che ho avuto belle stagioni!
Poiché voglio essere positiva prenderò la cosa con estrema eleganza pensando che, in fondo è meglio aver avuto delle belle stagioni, piuttosto che aver conosciuto solo inverni.
Almeno hai qualcosa da rimpiangere.
Uhm, modello pizza quattro stagioni?
Infine, ho comprato degli orecchini molto belli, in resina più per imitazione che per convinzione, pensando di regalarli. Poi, avendo un maglione che si abbinava bene con gli orecchini li ho indossati e giù a dirmi tutti quanto stavo bene e quanto mi donassero questi orecchini.
Uhm modello lampadario.
Il punto è, quindi:
Bamby è un film d’animazione del 1942, uscito in Italia nel 1948, ci avrà pure il diritto sto povero capriolo, scampato alla furia dei cacciatori di cervi, d’invecchiare, in santa pace, no?
La pizza quattro stagioni mi fa confusione, ma se serve, la mangio.
Concludendo, dovendo scegliere tra avere una faccia decente o un didietro piacevole, scelgo la faccia, sia perché mi viene naturalmente meglio sia perché i chili in più mi stanno meglio sul viso che sul culo.
Quanto allo sguardo, da oggi, mai più senza mascara.
 
 
 
 
 
 

lunedì 2 dicembre 2013

Se avessi una figlia


Se avessi una figlia, le regalerei la crioconservazione degli ovociti.

Ovvero, la possibilità di preservare la propria fertilità, qualunque cosa le succeda o decida che le succeda nella vita.

Per una diversamente fertile, sapere che esiste una possibilità del genere significa dare e darsi un’opportunità enorme.

Venerdì la clinica della fertilità G.en.e.r.a. di Roma mi ha invitato a un convegno sulla preservazione della fertilità femminile che ha affrontato tutti gli aspetti, da quelli socio-economici, a quelli oncologici, ginecologici, giuridici, fino a quelli sociali di una pratica non conosciuta al grande pubblico ma che, a mio avviso, rappresenta un atto d’amore verso se stesse, di rara bellezza.

Diversi specialisti, oncologi, ginecologi, biologici e psicoterapeuti hanno raccontato con schiettezza e sincerità quello che gran parte di noi, spera di sentire narrato come qualcosa di naturale e vero.

Sono moltissime le donne che potenzialmente possono usufruire della crioconservazione ovocitaria.

Donne affette da neoplasie le cui cure chemioterapiche tendono a distruggere l’apparato riproduttivo.

Immaginiamo di essere una di queste donne.

Hai circa vent’anni o giù di lì e ti dicono che sei affetta da un tumore maligno. Per combattere il tuo male devi sottoporti a cure che danneggeranno per sempre il tuo apparato riproduttivo e non potrai mai avere un figlio. Per una donna in queste condizioni, pensare solo di poter preservare la propria capacità riproduttiva, rappresenta darsi la possibilità di progettare una vita dopo la malattia, speranza che si ripercuote anche sullo stato emotivo e di conseguenza sulle probabilità di guarigione.

Oltre che per la tua vita devi combattere per la possibilità della vita di tuo figlio.

E’ diverso. Sul piano psicologico una cosa è sopravvivere a se stesse e al male, un’altra alla possibilità di generare e proiettarsi nel futuro.

Gli studi scientifici hanno evidenziano che posticipare di un mese, tempo utile per la stimolazione non incide sull’andamento della malattia e che, comunque, la terapia è variabile e dipende dal caso, dal tipo di trattamento oncologico e della riserva follicolare ovarica della donna. Dovrà essere il suo medico a prospettarle questa possibilità lasciando a lei lo spazio per decidere.

Immaginiamo donne, anzi immaginiamoci, perché molte di noi hanno queste malattie, soggette a patologie come l’endometriosi, o come la menopausa precoce o donne che hanno subito interventi invasivi alle ovaie o alle tube che hanno compromesso la loro funzione ovarica.

Perché impedire loro, perchè impedirci, di pianificare un’eventuale gravidanza?

Noi lo sappiamo bene che viviamo in un paese in cui, purtroppo, l’età sociale non coincide più con quella biologica, che siamo costrette a posticipare l’idea di avere un figlio di anno in anno, fino a quando raggiungiamo il momento giusto per posizione, status e professione, ma sbagliato per il corpo perché ormai è tardi. Perché prima di avere un figlio, abbiamo dovuto cercare un lavoro stabile, dignitoso, un posto decente, dove stare. Lo sappiamo così bene che ormai lo ripetiamo come un mantra.

Siamo così stanche di dover difendere concetti moderni e naturali di un’equità sociale - scientifica lapalissiana eppure ancora così avanguardistici per alcuni bigotti e meschini per i quali tutto ciò che attiene al sesso e alla nostra sfera riproduttiva deve rimanere fermo e immobile, che ci tocca combattere contro chi ancora pensa che la pma sia l’ottavo vizio capitale, che un’eterologa sia un tabù, l’adozione tra gay peccato mortale, che un utero in affitto sia un reato.

Eppure, la crioconservazione è una realtà, è una tecnica in cui il nostro paese, strano a dirsi, è leader ed è riconosciuto come tale dalle più importanti società scientifiche internazionali.

Io credo che se fossi madre di una figlia femmina e l’accompagnassi per la prima volta da un ginecologo, vorrei che lui le prospettasse questa possibilità. Vorrei che le dicesse, quando è ancora in tempo, quando i suoi ovociti sono al massimo dello splendore, guarda che puoi farti un regalo meraviglioso, darti la possibilità, qualunque cosa ti dovesse succedere nella vita, di congelare la tua fertilità. Magari, figlia mia, non ne avrai mai bisogno, magari sarai la donna più fertile nella vita e partorirai come una coniglia, magari non te ne fregherà niente di avere dei figli, o magari la situazione sociale in cui vivrai ti farà talmente schifo che ti sarà passata la fantasia di mettere al mondo un figlio. O forse no.

Forse ti troverai a ringraziare una madre così avanti che guardando indietro aveva già trovato il tuo futuro.

Io questo farei se avessi una figlia.

Lo farò anche con mio figlio e i suoi spermatozoi.