lunedì 22 aprile 2013

La solitudine che scava da dentro


Soffro, lo capite che soffro, patimenti che strappano le urla.

Maledetti figli di una madre detestabile,

possiate crepare, voi e vostro padre e che questa casa precipiti in rovina…Ahi!

Perché il fulmine non mi incenerisce, perché continuo a vivere?

Come vorrei lasciare questo mondo odioso, dissolvermi nella morte.

(Euripide - Medea)

 

Un altro fatto orribile, tragico, di quelli che fanno male solo a pensarlo e ti riempiono il cuore di  tristezza e pietà, è di nuovo su tutte le testate giornalistiche.

Madre uccide la figlia di 18 mesi e poi si toglie la vita.

Questa volta la mamma in questione è una professionista, appartiene ad un ceto sociale agiato, ha studiato, non vive ai margini.

Eppure è sola. O pensa di esserlo.

Follia, disperazione,vendetta?

Cosa si scatena nelle mente di una donna che uccide il proprio figlio?

Spesso si parla di “Sindrome di Medea”. Medea è la protagonista della tragedia di Euripide, che uccide i figli avuti da Giasone fuori dal matrimonio quando lui sta per sposare Glauce e vuole sottrarglieli. Il giudice Creonte le concede di vederli per l’ultima volta e lei li uccide. Lapidario il dialogo tra i due quando Giasone le chiede: «E così allora li hai uccisi?» E Medea risponde: «Sì,

per farti soffrire».

  
Resnick (1969) si interroga sulle modalità che le madri adottano per porre fine alla vita del proprio figlio restituendo una classificazione che comprende cinque categorie di infanticidio sottolineando come il periodo più a rischio per un minore è quello fino a sei anni di vita e le divide in 5 categorie,
 
 - altruistico: in questo caso la madre spesso si suicida dopo aver ucciso il figlio malato (suicidio allargato) per salvarlo da una vita di sofferenze. A questo comportamento si associa la Sindrome di Beck, cioè una visione pessimistica di sé e del proprio futuro;
- con elevata componente psicotica: la madre uccide il figlio dando ascolto ad allucinazioni che le "ordinano" di commettere il brutale gesto;
- di un bambino indesiderato: si verifica quando il figlio è nato da una relazione extraconiugale o perché la madre è troppo giovane e immatura. In questo caso i tentativi di suicidio della donna sono scarsi;
- accidentale: la madre, già abituata a picchiare il figlio, ne causa la morte a causa di un gesto impulsivo in seguito alle urla e ai pianti del bambino. La donna spesso soffre di disturbi di personalità e irritabilità. Spesso si tratta di donne che hanno subito violenza da piccole e il marito è poco partecipe ai problemi della famiglia;
- per vendetta sul coniuge.

Mentre Mastronardi (2006) propone un’altra classificazione, quella delle motivazioni che portano all’infanticidio dividendoli in due blocchi: il primo riguarda le madri che sono responsabili penalmente e quindi imputabili ed il secondo che invece comprende le donne per le quali sussistono cause psicopatologiche che ne compromettono parzialmente o totalmente la capacità di intendere e di volere.

 
Quello che più mi colpisce, aldilà della psicologia a buon mercato e delle singole classificazioni,di quello che posso aver letto o studiato, penso che  i motivi che possono spingere una madre ad uccidere il proprio figlio, siano diversi e legati tra di loro. Che alla base di una tale disperazione ci sono elementi psicologici, sociali, relazionali e un dolore enorme, così grande da sembrare senza soluzione. Di solito, infatti, queste tragedie avvengono a ridosso di una perdita affettiva, di un lutto, di una separazione.

Mi chiedo cosa ci sia alla radice di un gesto tanto estremo. Una fragilità patologica? L’assenza di amore, la non vicinanza delle persone care? Il terrore che non si possa proteggere il proprio figlio dai mali dell’universo e dal dolore e allora si decide di proteggerlo con la morte?

L’incapacità di chiedere aiuto?

 
”Dietro gli infanticidi c’è sempre l’impossibilità di far conoscere i propri veri sentimenti e un’infinita solitudine, anche se i contesti possono essere i più disparati e perfino la motivazione può cambiare: c’è l’adolescente che si libera del neonato partorito di nascosto da tutti e che, nella sua mente, è solo un corpo estraneo da eliminare; c’è la donna sposata che non riesce a trasformare in progetto emotivo lo stereotipo della bella famigliola;

c’è la donna che realmente ama i suoi figli ed è proprio per salvarli dal dolore della propria

depressione che li uccide, uccidendosi poi lei stessa. Terribili drammi che ci devono far riflettere su cosa si faccia o non si faccia per prevenirli. http://adelaide-baldo.psicologi-psicoterapeuti.it/articoli/pdf/madri_infanticide.pdf

 
C’è una bellissima tesi di Annalisa Cavallone che parla di infanticidio-figlicidio.

 
Tante le ragioni che spingono a compier un atto così atroce, tante le situazioni, le sofferenze, magari le violenze psicologiche, le incomprensioni, gli abbandoni, le solitudini, le miserie, tante le storie.

E’ possibile che una persona consideri il mondo così brutto e che per amore, decida di sottrarre il proprio figlio a tali mali, uccidendolo?O che si creda, come Meda, una madre così orribile “detestabile” così non all’altezza del proprio compito da preferire la sua e la morte di suo figlio, alla vita?

 è possibile.

E non sempre è colpa di una malattia psichiatrica, o meglio, non solo.

 
E allora dobbiamo porci alcune domande. Forse non tanto “perché lo ha fatto” ma che vita faceva, quanto la morte della sua mamma l’abbia spinta nel baratro della solitudine, che tipo di famiglia, amici, relazioni la circondavano, a chi ha chiesto aiuto nel momento di difficoltà? E quanti non hanno capito/sentito e distratti hanno guardato altrove?

 Provo una gran penna.

Perché quella donna, forse, era apparentemente normale, avrebbe  potuto anche tenere  un blog, avrebbe potuto raccontare la sua vita senza davvero raccontarsi, avrebbe potuto benissimo essere una di noi.
Apparentemente normale, con un comportamento ordinario,consueto, ma così angosciata dentro e così sola da non credere più ad alcun senso, neanche a quello nuovo portato dal  proprio figlio.


 



venerdì 19 aprile 2013

Interrogativi


Ho tagliato i capelli in cerca di leggerezza.

I miei capelli sono come quelli di Niccolò Fabi, un cespuglio che domo a suon di contro permanenti e passate di piastra. “Non voglio più chiedere scusa
se sulla testa porto questa specie di medusa
o foresta
non è soltanto un segno
di protesta
ma è un rifugio per gli insetti
un nido per gli uccelli
che si amano tranquilli fra i miei pensieri
e il cielo
sono la parte di me che
mi somiglia di più” e
 quando perdo il senso e non mi sento niente
io chiedo ai miei capelli di darmi la conferma
che esisto
e rappresento qualcosa
per gli altri”e li ho tagliati.

 

Ho preso un po’ di sole, tanto per scrollarmi di dosso il grigio e risvegliarmi dal torpore, come le margherite. Così adesso ho quel colore incerto che non va bene con il fondotinta e non va bene senza e la pelle così sottile che se mi metto controluce puoi verdere la strada che fanno i neuroni rimasti. Che non è che siano tanti, eh?

Mi sono messa a dieta, ho tolto il pane, la pasta, non mangio dolci, non bevo vino, conto le calorie, e affronto il cibo come il soldato Jane e…sono ingrassata mezzo chilo.

                                                                 Dove sbaglio?

 

Vi ricordate la mia rubrica sulle nuove mamme?

giovedì 18 aprile 2013

Assenze


Non sopporto più le persone concentrate su loro stesse, sulle loro assenze, sui propri inverni.

Non sopporto più le distrazioni, le mancanze, le giustificazioni.

Le amiche che tanto io capisco, che tanto ci penserò domani, che tanto che…
 
Ognuno ha i propri problemi, la vita scrolla sporcizia su tutti, nessuno escluso e i sogni non realizzati non hanno padroni. Sono di tutti.

Mi sono stufata di dover sempre comprendere le paturnie altrui.

Chi c’era con me quando io raccoglievo vetri?

Non mi pare che ci pigiassimo i piedi.

I legami son fatti per essere alimentati, vanno innaffiati come le piante, ci devi soffiar su, altrimenti si smorzano.

Ed io sono fatta così.

Ci devi essere, certe volte.

Altrimenti mi annoio uguale, pure senza di te.

 

lunedì 15 aprile 2013

I bambini e la separazione


Un mio carissimo amico e collega, che stimo profondamente perché appartiene a quella categoria di persone che ama profondamente il proprio lavoro, E CI METTE DENTRO ANIMA E CORE, con sensibilità e professionalità speciali,  che si trovano nella pubblica Amministrazione, sebbene si pensi il contrario, mi ha parlato di un’iniziativa che vorrei condividere.
Perché  trovo questa attività un atto d’amore profondo nei confronti dei propri bambini e di civiltà nei confronti dei propri compagni o ex o vicini al diventarlo.

Si tratta del “Gruppo di parola”.

Il gruppo di parola è uno spazio offerto a un gruppo di massimo 8 bambini compresi tra i 6 e gli 11 anni pensato per accompagnarli nel percorso di separazione dei loro genitori.

I bambini di solito non sono coinvolti nella separazione dei loro genitori, ma la subiscono totalmente. Loro non sanno come esprimere la rabbia, la tristezza, i dubbi, le difficoltà che incontrano. Hanno a che fare con una situazione nuova, non voluta e non hanno gli strumenti adatti per gestirla. L’esperienza del gruppo, attraverso lo scambio e il sostegno reciproco permette loro di “vivere e poter esternare i sentimenti” legati alla separazione. In particolare:

-          Affrontare i cambiamenti legati al distacco;

-          Esprimere i propri vissuti attraverso la parola, il disegno e il gioco;

-          Trovare modelli per la riorganizzazione familiare;

-          Condividere le proprie esperienze con gli altri bambini;

-          Rinforzare l’autostima;

-          Favorire un maggior dialogo con i genitori e gli adulti di riferimento.

La cosa bella del gruppo di parola è che il gruppo è strutturato in 4 incontri a cadenza settimanale, dove sono trattati i diversi stadi della separazione, solo nell’ultimo incontro è prevista la presenza dei genitori che al termine potranno richiedere un incontro con i conduttori (con formazione specifica universitaria) del gruppo stesso.

Il gruppo non si sostituisce al ricorso a un’analisi specialistica, quando necessaria, o al ricorso a terapie psicologiche per bambini, ma vuole essere un luogo dedicato solo a dare la parola ai bimbi. Quello che mi ha colpito dai racconti del mio amico è che i bambini non si trovano a vivere tutti lo stesso stadio della separazione: così quelli che magari hanno già conosciuto il nuovo/a compagno/a della mamma o del papà danno consigli a chi, invece, si trova nella situazione di doverli conoscere, oppure, tra loro, si confrontano su come superare certi momenti.

E vengono fuori delle cose che fanno pensare: ” la separazione è cacca, la separazione fa schifo, fa male, è brutta. Ma è brutto anche quando mamma e papà urlano, quando litigano e si dicono le cose brutte, e mamma piange e papà sbatte la porta ed esce ed io rimango solo e ho solo voglia di piangere”.

Fanno disegni in cui ritraggono la loro rabbia, e lo fanno magari facendo merenda, a terra, insieme. Lì ricompongono i pezzi di una famiglia a brandelli o meglio i cocci dei loro piccoli vasi, rotti. Credo che sia una possibilità e un’occasione che, qualunque genitore degno di questo nome, in una fase così delicata della vita del proprio figlio, debba dargli.

Perché, come una volta scrissi in un altro post, il compito di un genitore non si esaurisce solo nel proteggere il proprio figlio dalla violenza, anche familiare e verbale e dalle malattie. Il dovere di un genitore è dargli tutti gli strumenti che sono a sua disposizione in modo che sappia affrontare, bilanciandosi, una vita in bilico, una vita che spesso perde il proprio equilibrio. Una madre e un padre hanno l’obbligo morale di offrire al proprio figlio occasioni di crescita, possibilità, chances. Con qualunque strumento atto a stimolargli cuore e mente, con sensibilità e rispetto, in modo schietto e sincero, anche davanti al fallimento del  proprio amore.

 
La partecipazione è gratuita e richiede il consenso di entrambi i genitori, proprio a sottolineare che nessuno dei due utilizzerà la faccenda come strumento di ritorsione reciproca a discapito del bimbo.

Io trovo che sia un’iniziativa di grande civiltà e di amore.
 
 
Facciamoli parlare e soprattutto ascoltiamoli.

 

venerdì 12 aprile 2013

Ecco, la luna. Buon compleanno


Certi momenti, quelli che diventano ricordi degni di tale nome, quelli cui ti aggrappi quando fuori la vita stride, hanno bisogno più di carezze, che di parole.
Perché anche le parole più belle riuscirebbero a sporcarli quei ricordi, così nitidi e incisi nel cuore come i solchi di un aratro sulla terra umida.
Neanche il cuore riesce a contenerli senza lacrime.
E così, ogni fase fisica e chirurgica che mi ha portato a tenerti tra le braccia quel 13 aprile di due anni fa è impressa come cera lacca lungo le pareti del mio cuore. E domo le emozioni, rincorro l’odore e rivivo ogni istante, ancora e ancora.
Perché l’amore per un figlio ti rende terrena, umana, mortale e profana. Materiale e secolare. Caduca. E hai paura che tutto l’immateriale che a lui ti lega, possa svanire in una bolla di sapone.
Le emozioni dissolversi.
Susibita dice che innamorarsi di un figlio ti rende terrena.
“ L'amore per un figlio è fatto di ore.
S'insinua nelle lenzuola piegate, dentro al latte del mattino, tra le dita grassocce dei piedi e i bioccolini delle calze, scivola lungo la curva delle ciglia, nel sudore della febbre e dell'amoxicillina, scende lungo la guancia, si fa largo tra il brontosauro e il coniglio che segretamente desideri impiccare.
L'amore per un figlio non ti nasconde i suoi difetti: ti stanca la notte, fa puzzette di giorno, mina le tue certezze, affossa le tue esigenze, fa prudere le mani e raccontare fiabe col cappello.
L'amore per un figlio è fatto di ore, di giorni. E' fatto di momenti: uno dopo l'altro, uno dopo l'altro”.
Dicono che è in questo modo che i cinesi siano arrivati sulla luna: uno sopra all’altro, uno sopra all’altro.
Ed è così che io ti porterò la luna, figlio mio, sogno dopo, sogno, sogno dopo sogno.
Tanti auguri, piccolo mio, buon secondo compleanno.

martedì 9 aprile 2013

Il tempo piccolo e la grandezza della speranza


Lei voleva dare a tutti la notizia.

Ha aspettato di più, questa volta. Per paura che accadesse di nuovo, per paura che il sogno prendesse il volo come le rondini che non arrivano.

Ne ha persi due di sogni.
Quasi dieci settimane. Ora prova a crederci.

Lo dice, con la leggerezza nello sguardo e il cuore che profuma di speranza.

Lei è bella.

Si avvina Lui. Piccolo, piccolo, ha solo 6 anni.

Lei gli prende la manina e posandola sulla propria pancia gli dice:”Sai? Qui dentro c’è il tuo cuginetto.”.

Lui la guarda con gli occhi grandi e sorpreso, ma neanche più di tanto le chiede:
"Ah, rinasce, allora?”

Come la semplicità dei bambini rende tutto possibile, semplice.

Quella vita ri-nasce, ri-torna, torna al mondo nuovamente.

Forse prima non poteva, forse doveva fare un giro più lungo.
 
Il tempo infinito, sembra piccolo. E forse lo è davvero, se si cambia la percezione dell’immenso

venerdì 5 aprile 2013

L'intervallo dalle nostre consapevolezze


Leggere un post di Anna mi ha portato a riflettere su alcune considerazioni.

Anna è una persona “speciale” e lo è indipendentemente dalla sua storia “difficile”. Dai suoi abbandoni, dalle sue separazioni.

Lo è perché, sono convinta che al mondo esistano persone belle che abitano case provvisorie ma che appartengono ad altri spazi, altri luoghi. E sono qui solo per ingannare il tempo, o forse per un processo di purificazione temporale per poi riappropriarsi di altri orizzonti.
Di altri cieli.

Non a caso progetta ambienti, delimita l’infinito, dà margini all’universo e al vuoto.

I suoi lutti fanno parte di lei come le sue rinascite, i figli non nati sono figli nati silenti.

 

Anna parla di “confort care” pratica medi­ca che ha come fine aiutare il pa­ziente a ‘sentirsi bene’, per quanto possibile, in qualsiasi condizione si trovi”e lo fa attraverso la voce di Costanza Miriano neonatologa che applica questo principio ai bambini venuti al mondo con problemi di salute, a quelli destinati ad avere una vita brevissima, che hanno il diritto a godere, magari di 6 ore di vita, ma le 6 ore più belle e piene per i loro genitori.

 
Anna ha bisogno di speranze ed estende il concetto di confort care anche all’aborto.

Eppure Anna è molto chiara: non vuole aprire un dibattito pro aborto o contro aborto e ribadisce il sacrosanto diritto di tutti ad avere la libertà di abortire, come ad avere la possibilità di non farlo.

 
Per Anna sapere che nell’eventualità più buia che i suoi bambini possano essere malati, ci può essere un’alternativa, è un sollievo.
E’ aria nei polmoni sapere che c’è un medico che sta alla morte e alla vita nei termini che lei conosce così bene.

Perché cosa voglia dire avere la vita dentro, l’ha scritto tante volte, cosa voglia dire avere la morte pure, come averle insieme, anche.

Anna è questo, e molto, molto altro. E’ quello che era prima dei suoi figli e quello che è diventata dopo e grazie a loro.

Anna è una storia, forse già scritta, come lei dice, in cui ogni membro della sua famiglia si tiene per mano e cammina verso una direzione.

E qui mi fermo a riflettere.

Perché questo post non vuole essere un omaggio ad Anna, sebbene speri che Lei sappia che la sento così vicina da provarne il calore delle mani pur non avendole mai sfiorate e così amica come un’amica, piuttosto vuole essere un ragionamento.

Mi chiedo quanto siamo disposti a cambiare le nostre posizioni davanti ad avvenimenti imprevisti?

Quanto siamo disposti a cedere di noi stessi, delle nostre convinzioni, davanti a scelte complesse, difficili, emotivamente devastanti?

Magari siamo state sempre favorevoli all’aborto e poi davanti ad una scelta personale, abbiamo scelto la vita.

Magari abbiamo sempre pensato che noi no, un figlio fragile non lo avremmo mai messo al mondo perché consapevoli del fatto che non sopravvivendogli, non avremmo potuto proteggerlo per sempre e poi invece, lo abbiamo scelto.

O che noi no, noi siamo contrari all’adozione alle coppie gay per un concetto vecchio di famiglia, per poi ricrederci perché è famiglia dove risiede amore, indipendentemente dal sesso dei genitori.

Che noi no, noi non staccheremo mai il tubo che alimenta mia madre, o mio padre, o mio fratello, o il mio compagno che mi prega di restituirgli dignità nel momento dell’addio, per poi scoprirci pronte a tagliare con le forbici del pollo la flebo della separazione.

Che noi no…per questo o l’altro motivo, per poi cadere e farsi male e scoprire con il dolore di una pugnalata al centro dello sterno che “ogni scelta è insindacabile per chiunque ne sia estraneo, ogni ferita un dolore diverso, ogni dolore unico.”

Come le storie, come le persone, come le scelte.

Io sono una persona coerente. Coerente, spesso, anche negli errori.

Sono stata sempre contraria alla convivenza. Ho convissuto due anni prima di sposarmi.

Ho sempre pensato che avrei fatto ogni tipo di esame prenatale per fugare ogni dubbio sulla salute di mio figlio. Non ho fatto neanche l’amniocentesi.

Credevo che i figli biologici fossero in qualche modo diversi da quelli adottivi. Oggi ricorrerei anche all’eterologa se ce ne fosse bisogno.

Oggi non so come mi potrei comportare davanti ad una scelta dolorosa e devastante, ma so che non sarei così intransigente e integralista come un tempo. So che ci sono miliardi di sfumature di grigio. Alcune bellissime.

Come il viso di Mattia, come la speranza di Anna.

 

martedì 2 aprile 2013

Cosa ti lascio


Sono giorni molli. Giorni in cui vorrei, ma non riesco.

Ho bisogno di riprendermi. Ri - prendere una me nascosta in qualche ritaglio.

Ho bisogno di un’idea, di farfalle nello stomaco, di uno spicchio di cielo.
 
Quando mi chiedono cosa vorrei che mio figlio ricordasse di me, di noi, vorrei questo.

Essere il suo spicchio di cielo.

Un trancio di pizza, mozzarella che fonde.

Lo sciabordio di parole d’amore.

Il sapore dell’acqua di mare.

La ninna nanna della notte bella.

La sua strisca di sole.

La sua pausa dal dolore.