Guardarmi. Non
vedermi.
Non riconoscere
quegli occhi stanchi.
Cerchiati,
cambiati.
Meno luce,
seppure luce intorno.
E’ capitato
altre volte.
Ma mai così. Mai
come adesso.
Un viso stanco, invecchiato,
mi rimanda l’immagine di una me diversa che faccio fatica ad abbracciare.
Il naso, la
bocca, i lineamenti, all’improvviso, sembrano non appartenermi.
Io che pensavo
che la mia faccia fosse la parte migliore di me, il mio biglietto da visita, mentre
il corpo variava al cambiare dei periodi e dei cicli, a volte più esile, altre
volte meno, sbagliavo.
D’un tratto, il
viso che ti accompagna ogni giorno da tanto a questa parte, ti molla, diventa
diverso. Non sapresti dire come, in cosa è cambiato. Se siano le rughe intorno
agli occhi, o la pelle più sottile della carta, o semplicemente il pallore. Sai
solo che è così e tu non puoi che accettarlo perché nonostante la crema più
costosa, il trattamento più profondo, il siero più energico, qualcosa è cambiato.
Saranno gli “anta”,
la fatica, lo stress, la vita che serra, stringe, pressa, incalza dentro e
fuori.
Non aspetta. Non
si ferma. Le spalanchi le braccia e le vai incontro, con il cuore allargato perché
è così che sfondi barriere e rendi il latte versato, nuvole per i passi di tuo
figlio.
Ma ti senti liquido.
Un liquido incolore.
Un fluido che non ha una forma propria. Un
liquido che prende la forma del recipiente in cui è versato.
Spalle ricurve,
una schiena che non da tregua, contorni sempre meno decisi.
Sono stati anni
intensi. Densi, colmi, assetati.
Anni vampiri.
Un lungo periodo
in cui il tempo è diventato un usuraio.
Cercare mio
figlio tra montagne e ormoni, trovarlo, accoglierlo, partorirlo, allattarlo, riprendere
il lavoro, dormire poco, scrivere di noi, restituire al mondo la bellezza della
luce di un neon da laboratorio e cercare di accarezzare il dolore altrui,
diventare vegetariana, assumere impegni, amare, mi ha prosciugato.
E un mattino, lo
specchio mi fa ricordo.
Ripensare di me.
Del mio fisico, del mio viso, della taglia che veste quella che non sono, mi
scavalca, relegandomi al margine di una me, vecchia.
Ho messo in giro
tanta energia.
Ma devo
fermarmi.
Guardarmi e non
trovarmi, mi svuota.
Forse ho solo
bisogno di verde, di mettere una tuta e ricominciare a correre. O a nuotare.
Bracciata dopo bracciata dopo bracciata, verso il largo.
Ho bisogno di
versare altro liquido per colmare di nuovo e ricominciare a drenare un corpo e
un viso disseccato, consumato.
Ho bisogno di
prati e margherite.
Di ricordare che
sapore ha scoprirsi e non coprirsi.
Sentirsi
nuovamente bella, malgrado lo sia già per gli uomini più importanti della tua
vita, senza per questo, provare colpa.