venerdì 30 novembre 2012

Un post, così


Vedere i comignoli colorati e le forme ondulate di Gaudì, sorridere abbracciati davanti a Time square, perdersi risalendo insonnoliti le rive del Makong, verso le torri merlate di una città perduta tra le radici del tempo, mentre ripensiamo a Dahoo, con la sua lunga proboscide che ci porta sulla groppa in mezzo ad una foresta thailandese.

Procedere verso il tramonto lungo la rotta dei vini e fermarsi, sorpresi con gli occhi di bimbi davanti al ballo delle balene in una baia della costa meridionale del sud dell’Africa, sapendo nel cuore che la danza dei cetacei è l’inno alla vita che già, disperatamente comincio a cercare.

Rimettere la sveglia per vedere dalla finestra del lodge gli animali che bevono nella savana, amarci dentro le acque cristalline dell’oceano indiano e perderci di fronte a quello pacifico.

Bere del bordoux a Bordoux e litigare come pazzi perché qualcosa è cambiato.

Ridere, ridere e ridere ancora di quando gli occhi si sono gonfiati per il freddo di Praga, per gli aerei sbilenchi su cui abbiamo viaggiato. Ripercorrere i brividi, la mia mano nella tua, ogni volta che si decolla. E ancora spiagge candide, e incontri sommersi.

Avremmo potuto proseguire lungo i vigneti della Borgogna, su, su, fino a un punto impreciso per poi riprendere un’altra strada e continuare a vedere posti, incontrare persone, cogliere attimi che continueranno a vivere di vita propria.

Un’altra vita, distante da questa, diversa.

Annusare l’odore delle piante di mirto che costeggiano l’Alhambra, o bighellonare tra i mercatini di Camden Town o tra i banchi del Russian market di Phnom Penh che brulicano di persone, che si pigiano e si strattonano tra corridoi stretti, soffocanti e strapieni di cose.

E tu che ridi perché hai acquistato una pianta di orchidea.

Svegliarci stropicciati per il troppo camminare mangiando french toast e marmellata e bekon e uova strapazzate o ostriche in una notte ventosa all’altro capo del mondo.

Partire, tornare e ripartire.

In che punto del viaggio, ci siamo fermati?

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 29 novembre 2012

The walking dead


Succede che, mi sveglio di soprassalto con il cuore in gola convinta di aver appena preso a bastonate uno zombie che mi vuole entrare dalla finestra.

Premetto che ho sempre fatto dei sogni pazzeschi, dei veri film, con tanto di trama, apocalittica a volte. Talmente contorti e zeppi di dettagli che anche il mio terapeuta, all’epoca, abbandonò l’idea di interpretarli.

Mi alzo e corro in camera di Daniele e l’odore di mio figlio mi assale, calmandomi all’istante. Lo guardo dormire angelicamente e l’ansia scompare. Ma resta un senso di disagio. Torno in camera, il mio cane dorme a pancia in su e anche mio marito.

M’infilo di nuovo a letto e cerco di riaddormentarmi. E come spesso mi accade, mi trovo a continuare il sogno interrotto. Adesso sono in una casa con un grande giardino, le finestre sono tutte aperte ed io ho di nuovo il sentore che gli zombie stiano per arrivare. Chiedo di chiudere le finestre, di mettere mobili davanti alle porte. Chiedo di fare attenzione e prendo in braccio il piccolo, con la consapevolezza che non potrò salvarlo. Chiamo il mio cane che agitato corre avanti e indietro oltrepassando il cancello. Cerco con gli occhi qualcuno che so, oltrepasserà le siepi. Prego mio marito di ascoltarmi perché “sento” che accadrà qualcosa di brutto, ma come sempre dice che esagero, che è tutto a posto e che in zona non c’è nessun morto vivente.

Ma io so che non è così.

Mi sveglio di nuovo, impiego sette secondi per capire che si trattava del solito sogno, ma tremo come una foglia. Chiamo mio marito ma lui, grugnisce.

Ho smesso di guardare “The walking dead” circa un anno fa e tutti i film che possano in qualche modo turbarmi, ma evidentemente c’è della violenza che mi colpisce e che di notte rielaboro.

Resta solo Dexter. Ma lui, sebbene sia un killer seriale, fa parte dei cattivi - buoni. Quindi continuo a guardarlo.

Il fatto è che, da quando Daniele è nato, mi sconvolge anche il buio. Non è che sia nota per essere un cuor di leone, anzi, però mi rendo conto che, mai come adesso, m’impressionano cose cui prima non davo peso.

Seguendo una spicciola psicologia, immagino che il mio aumentato timore sia dato dal bisogno di protezione nei confronti di mio figlio, amplificato a un’assurda potenza. E fin qui ci sta.

Ma mi domando: E’ mai possibile che una che ha bisogno di sonno come il cervo delle sue corna, debba ritrovarsi dalle tre alle cinque di notte con gli occhi sbarrati in preda al panico perché nel suo assurdo immaginario c’è una remotissima possibilità che uno zombie le possa entrare dalla finestra senza colpo ferire?

No, secondo me non è possibile.

Qualcuno potrebbe dire: ”Bevi de’ meno”.

Il brutto è proprio questo: non avevo bevuto, non avevo mangiato pesante, non avevo visto niente che potesse spaventarmi.

La paura a volte, riempie il vuoto dell’inadeguatezza.

La clava, a volte, è meglio di niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 28 novembre 2012

We want you

 
Odio chi mi mette le mani nei capelli, parrucchiere compreso, chi cerca di toccarmi non autorizzato e non sopporto che mi guardino i piedi.

I piedi sono zona off limits.

Ma una cosa che ho sempre amato del tempo trascorso dal coiffeur sono la pila di settimali, quotidiani, mensili che puoi leggerti senza sentirti in colpa.

Eh già.  Il senso della colpa viene meno perché, primo, puoi leggere giornali per cui non hai speso euro sottraendoli al bilancio familiare, secondo, puoi prenderti tutto il tempo che vuoi, tanto sei dal parrucchiere e devi aspettare il tuo turno, terzo, adoro l’odore della carta patinata, le foto, perdermi nei gossip e credere che le quarantenni di oggi siano le ventenni di ieri. Lo leggo sempre, alla fine finirò per crederci.

Ho sempre letto il rito del quotidiano dopo il caffè mi accompagna come i lacci alle scarpe con i lacci, appunto. I libri alimentano la mia fantasia e leggo pure le etichette delle bottiglie dell’acqua minerale in mancanza di altro. Quando poi mi annoio proprio, scrivo, almeno ho qualcosa da leggere. Ma c’è un tipo di settimanale, quella categoria di riveste, o sarebbe meglio definire di magazine, che fa riemergere la parte femmina che c’è in me.  Se ce ne rimane. Sì, quei magazine che sono un mix di bellezza, moda, glamour che ti fa scordare le ore buie e ti fanno sognare. Magari non te ne frega un’acca dei consigli dell’esperto in materia di abbigliamento, magari c’eri arrivata anche da sola che il verde bottiglia e il bordoux erano i colori delle sfilate dell’autunno-inverno 2012-13 che a trovare un maglioncino bianco, manco a parlarne. Magari la tendenza ti fa schifo e tu sei pure una di quelle che dal coro è sempre voluta uscire. Però, però, davanti a quelle sfilate, davanti al luccichio dello sfarzo, di fronte alla vita e alla sua leggerezza, tu proprio non resisti. E allora ti riappropri della parte fashion che c’è in te, quella che non ha a che fare con i pannolini, con le guerre, con il dolore, quella che si discosta tanto dalle maternità in provetta, dalle solitudini dei sud del mondo, quella parte che sai che un tempo era in te e oggi se n’è andata sottobraccio alla singletudine, lasciandoti un biglietto con su scritto”E’ stato bello, ma sei cambiata da quando ti ho incontrato”.

Tra tutti i magazine di tipo fashion, ho sempre amato Grazia. Non lo dico perché con questo post partecipo a”Blogger we want tou” organizzato dal magazine in questione. Lo dico perché è sempre stato così.

Grazia ha sempre svettato sulle altre riviste dello stesso stile. E l’ha fatto perché ne aveva uno suo, di stile. Un’eleganza innata, andava dritta, dritta, a conquistarsi target alti, aspirando al meglio, con il rischio di perdere dei lettori, ma con la determinazione di puntare oltre. Ho sempre pensato questo, di Grazia. Che fosse una tipa snob, una di quelle con la puzza sotto il naso, di quelle che ti dicono pane al pane e vino al vino, con una classe tale che, dopo le ringrazi, anche se tra le righe ti hanno detto che non vai tanto bene. E’ che per dire, scrivere, parlare, toccare certi argomenti, ci vuole la sostanza dei grandi e la forma dei signori. E Grazia ha entrambe le doti. Mi piace leggere l’attualità filtrata dal suo staff, mi piace la sua linea editoriale.

Ora, Grazia cerca blogger e certamente il mio blog è molto lontano dall’idea di fashion blog. Ma se Mammamimmo fosse votato ed io diventassi una blogger di Grazia, occupandomi di contest tematici, potrei parlare di fecondazione in vitro e potrei farlo a un pubblico più vasto. Del perché loro dovrebbero scegliere il mio blog, a pensarci bene, non lo so.
 http://blogger.grazia.it/images/blogger/js/badge.js?blid=0
 

 

martedì 27 novembre 2012

Il latte con il vov

Mamma Piki http://mammapiky.blogspot.it/2012/11/e-scoppiato-un-dardo.htmlha voluto donarmi un premio. E’ un premio importante, sapete? Di quelli che mica si ricevono tutti i giorni. E' stato creato dallo scrittore spagnolo, Alberto Zambade, e premia chi, con amore e dedizione, cura il proprio spazio "virtuale", cercando di trasmettere valori etici, culturali e personali. Lungi da me l’idea di trasmettere valori. Non so neanche come si faccia. Mammamimmononsolo  nasce a Maggio di questo anno in una giornata di sole.
Due anime, un cuore, una provetta e una cicogna tecnica, ma molto tecnica, ne  raccontano la storia. Ma siccome ho il vizio di non starmene mai zitta, chiacchiero anche di altre cose oltre il viaggio verso e dentro la vita. E racconto quello che vedo, quello in cui credo, quello che combatto, quello che…
Mi predo il premio e ringrazio ritornando al mio banco di corsa come quando si strappava un sette immeritato convinti che la professoressa avesse scambiato il latte con il vov. Ma in fondo perché accennare al possibile equivoco?
Vi lascio invece con questa fotografia che trovo bellissima.
E’ un invito ad andare avanti, dritti, sempre e comunque.

Dicono che sia la direzione giusta per la felicita.
E vi invito a leggere il primo rapporto Onu sulla felicità

lunedì 26 novembre 2012

Magari


Ieri è successa una cosa che mi ha fatto pensare a come, le persone che si reputano amiche nel più profondo del significato del termine, si possano perdere nei periodi di svolta delle proprie vite.

Perché l’amicizia è una cosa strana. Ha i pregi dei legami e degli affetti sinceri, non prevede l’esclusività affettiva, non ha le problematiche legate alla componente sessuale, ma sconta come tutti i sentimenti, la fragilità dei cuori.

Parlo di quell’amicizia con la A maiuscola, quella il cui grado di intimità reciproca è paragonabile solo a quella di una coppia unita, a quei rapporti continuativi nel tempo che rendono le persone che li vivono simili, al punto di confondersi l’un l’altro, che arrivano a stabilire vicinanze emotive che sono doni.

Si tratta di quegli amici che condividono con noi ogni momento, ogni sogno, ogni turbamento, con i quali procediamo lungo gli stessi binari, dritti, precisi, senza mai curvare. E le loro emozioni sono le nostre, i loro affanni ci fanno palpitare, i loro successi, gioire.

Sono gli amici che reputi fratelli o sorelle, quelli con i quali probabilmente in un’altra vita eravamo parenti. Che ti dicono quello che sei, quello che potresti essere, quello che è meglio che non diventi. Che stanno lì nel bene e nel male, che non ti mollano nelle perdite, negli abbandoni, ti sorreggono, ci sono. Nei giorni sì, in quelli no, in quelli così e così. Non a intermittenza, non a fasi alterne.

Ci sono e basta.

Sempre.

Contribuiscono alla costruzione metodica delle tue parti, nessuna esclusa. E in quelle parti si mescolano i loro elementi, in un groviglio di contaminazioni.

Poi accade che, per uno dei mille motivi che arrestano i percorsi e i viaggi intrapresi insieme, uno dei due resti indietro. Succede che uno viva delle esperienze che toccano la sorte solo di uno dei due. Succede che un legame, un trasferimento, un’unione, una maternità, un innamoramento ci allontani irrimediabilmente. E quello che non avresti mai pensato possibile, succede. Capita che ti separi, ti discosti. Ti trovi talmente altrove rispetto all’idea di amicizia che ti legava a quella determinata persona, da esserne ferito, disorientato, solo. E non sai neanche il motivo per cui solo fino a ieri avresti potuto giurare che meglio di lei, di lui, nessuno al mondo ti conosceva. Perché è con lei/lui che hai pianto per un amore finito, per quella volta che hai creduto di esplodere dalla felicità, perché è lei/lui che ti conosce come e meglio di tua madre. Perché a lei/lui hai detto cose che nessuna madre saprà del proprio figlio.

Eppure, malgrado l’amore, l’affetto, la stima o il rispetto che ci lega, ci si può allontanare anche dal proprio miglior amico. Catapultarsi reciprocamente dall’altro lato del globo e perdersi nella distanza. Perché gli amici, sbagliano. Perché io mi farei ammazzare pur di non ferire un’amica, la sua famiglia diventa la mia, perché lei è la mia famiglia, animali inclusi. Ma come dice Barbara, http://pezzodicuore.blogspot.it/2012/04/stand-by-me.html“gli amici sono persone e in quanto tali fallibili e se ci si fa male a volte non lo si fa apposta, o non si voleva o non si è potuto fare altrimenti”, oppure si è stati superficiali, poco attenti, distratti.

Ma in virtù dell’amicizia, non si può passare sopra a tutto. Non si può credere che tanto lei o lui capiranno, perché è sempre stato così, perché chi ha più buon senso lo adoperi, perché sono io che in questo momento ho più bisogno e lei/lui dovrebbe capire.

A volte capire non basta.

 

“Non passa senza passarci insieme, se ci si ferisce senza accorgersene, se si manca senza rendersene conto, se si calpestano involontariamente (a volte solo per noncuranza) sentimenti ed emozioni, bisogna riconoscerlo, bisogna imparare a dire "mi dispiace" e "come stai?" e "posso fare qualcosa per rimediare?.

“Perché l'amicizia ha un grosso vantaggio sull'amore: è una minestra che riscaldata, può anche essere più buona”.

Forse.

O forse bisognerebbe tramutarla in altro. Perché quello che era difficilmente torna come prima.

Bisognerebbe capire come era fatta questa minestra.

Magari basta togliere il brodo e farne una frittata.

Magari riscaldandola basta aggiungerci dei crostoni di pane.

Magari.

 

 

 

 

venerdì 23 novembre 2012

Vorrei, da qui oltre le stelle

Per lei, mia madre.

 Ti guardo.

Sei seduta sul divano con lo stile che ti contraddistingue, sobria e regale e l’impeto di venire lì ed accoccolarmi tra le tue braccia come un tempo, mi assale.
Non serve parlare, ti ho detto tutto, mi hai detto tutto.

Ci siamo raccontate dei sogni che passano insieme alle loro code; ci siamo strette a questo nodo che ci lega al mondo, strattonate, allontanate, ritrovate.
Ho urlato nel silenzio di notti insonni e tu mi hai sentito, io ti ho scaldato, quando tremavi.

Abbiamo vinto battaglie che non pensavamo di combattere; hai parlato con le cose inanimate e queste hanno vissuto di vita propria, almeno nel mio immaginario.
Ho visto, grazie alla forza della tua fantasia, posti, persone, paesi, luoghi che solo la ricchezza della tua inventiva poteva rappresentare in immagini visibili solo ai miei occhi.

Hai sfidato la vita, ti hanno emozionato gli arcobaleni e  l’azzurro di diversi cieli, hai combattuto la prepotenza del più forte.

E sei qui, più bella che mai. E le tue rughe parlano di te.

Penso che vorrei essere la madre che tu sei stata per me.

E allora mi rivolgo a te, bambino mio.

Vorrei che avessi occhi verdi come lei, ciglia folte con le quali sfogliare i ricordi della vita e vorrei che questi non volgessero mai  in rimpianti.

Vorrei parlarti delle distanze, dei dubbi e delle paure.

Incontrerai qualcuno che ti sembrerà così simile a te, da pensare di condividere il futuro insieme, vorrei essere lì ed abbracciarti, come ha fatto lei, quando vivrai il dolore dell’abbandono e la sensazione di non avere più il futuro; quando imparerai a tue spese, che le cose che ti allontanano dalle persone, spesso, sono le stesse che ti riportano a loro, che la diversità ha spesso un potere adesivo, eppure scoprirai la natura del dubbio e della separazione;

allora dovrai superare le incertezze con scelte coerenti, e confermare gli impegni assunti, giorno dopo giorno, anche quando sarai stanco anche quando fuori piove, senza contravvenire ai patti fatti con la  tua anima.

Dovrai, per forza di cose, deludere qualcuno e sopportarne il peso, pur di non tradire te stesso, come lei, con la sua eterna coerenza, costi quel che costi.

Non so se sarò capace di indicarti la via da seguire, i confini entro i quali dovrai camminare, i margini del giusto e dello sbagliato, del bianco e del nero, ma cercherò di illuminarti, dal faro della riva, come lei fa ogni qual volta fatico ad arrivare su nuove sponde.

Ti lascerò andare, quando vorrai partire, quando dovrai disegnare spazi da riempire di cose nuove, ma mi ritroverai ad aspettarti e non dormirò vicina al telefono.

Avrò paura che potrà succederti qualcosa di brutto e cercherò di evitarlo, ma già so, che non potrò caricarmi i tuoi dispiaceri, ne far sì che questi si rimpiccioliscano.

Starò in ansia, quando non ci sarai.

Starò in ansia, quando non torni.

Starò in ansia ai tuoi esami.

Starò in ansia per te, proprio come lei è in ansia per me, ma gioirò dei tuoi successi, orgogliosa e fiera.

Per anni ho pensato che il cordone ombelicale che mi ha unito a lei per nove mesi, non sia stato mai reciso, elastico e duttile, invisibile, eppure presente; si è adeguato alle pieghe delle nostre vite, si è allungato superando distanze fisiche ed emotive, saldo e forte come la roccia.

Ho paura, paura di sbagliare, di non riuscire a renderti libero, di non essere in grado di non viziarti del mio senso di precarietà, di darti la sicurezza che ti serve per crescere, scevro e libero  da timori e pregiudizi.

Ti guardo e mi domando se potrò mai amare mio figlio come tu hai amato me.

Mi accoccolo tra le tue braccia, in silenzio; tu mi accogli e la fatica della giornata trascorsa scivola via, un bagno caldo al rientro dopo una giornata uggiosa, casa e rifugio per cuori inquieti.

Penso che tu sia sempre stata questo, il mio rifugio.

Mi chiedi a cosa sto pensando, ti rispondo “a te”.

Non sai che vorrei dire a mio figlio che vorrei essere come te, che vorrei trasmetterle quello che sei.

Vorrei che ti somigliasse, dentro e fuori, che fosse la tua contiguità, non la mia, così potrei vederti quando, un giorno non ci sarai.

Eppure, so che neanche la morte potrà spezzare il nostro contatto.

Ti raggiungerò anche senza toccarti, scovandoti, anche, in quella perdita di coscienza.

Mi spingerò a te  nel sopore profondo di quel nuovo limbo.

E lo farò con caparbietà e dolcezza con determinazione e spavento, cullandoti tra parole e racconti, esattamente nel modo in cui tu mi calmavi nel cuore della notte quando i brutti mostri mi entravano nella stanza turbandomi e più tardi quando l’incertezza di crescere, minava il cuore di una bambina.

E poiché avrò ancora bisogno di te, dovrai seguirmi, consigliarmi, badare a me, dal posto ameno in cui ti troverai, attraverso il fascio di luce che ti avvolgerà.

Ti raggiungerò ovunque da qui oltre le stelle, oltre la vita e oltre, superando così la distanza che ci separerà.

Mi hai insegnato la sensibilità, l’onestà civile e morale, l’empatia, insieme alla capacità di soffermarsi sul mondo interiore degli altri e l’intelligenza di capire cosa muove i cuori altrui.

Mi hai insegnato il buon senso ed il suo contrario, la fantasia ed un mondo popolato di magia, comunicandomi l’incanto e il disincanto insieme a grandi ideali, accompagnati spesso dalla delusione di non poterli mettere in atto; ma sei sempre rinata dalle tue macerie.

Vorrei dare a mio figlio le stesse tue risorse, il piacere di ridere e occhi profondi per vedere al di là delle cose e del mare, di quel mare che tanto ti affascina sorprendendoti ancora con i toni dei suoi mille colori.

Non vorrei dargli delle ali, sarà lui stesso a costruirle con il mio aiuto, ma una grande valigia, da cui estrarre decine e decine di desideri e con questi l’abilità di realizzarli; una grande valigia che l’accompagni per il mondo, quando intraprenderà lunghi viaggi di andate e ritorni, colma di piccoli pezzettini di te, piena di quello che di te, io sarò capace di trasmettergli.

Ma non dovrà preoccuparsi il giorno che dovesse perderla in qualche aeroporto o in qualche stazione sperduta,  perché ciò che la valigia contiene gli vivrà dentro in modo così vivace da fargli dimenticare che i giorni hanno fini e che la bellezza passa.

Voglio però pensare che gli avrò insegnato la capacità di ritrovare la bellezza lungo la linea dell’orizzonte, quella sottile che separa il cielo dal mare, che sfiora tutte le sere la luna in fuga, fino alle stelle ed oltre. Lì saranno ad aspettarlo le persone che sono partite prima di noi.

 

giovedì 22 novembre 2012

Dog's day


Facciamo che oggi è la giornata da dedicare ai nostri compagni.

Facciamo che oggi è il dog’s day.


Perché devo chiedere scusa al mio cucciolo. Perché sono più stanca, ho meno pazienza e meno tempo, perché ha un fratello impegnativo.

Perdonami creatura meravigliosa se ti rimprovero ingiustamente.
 
Ti voglio bene come prima è solo che mamma è più stanca.

E allora ti e vì racconto una storia. Perchè è solo così che riesco a parlare. 

Il bambino, l’amico e il mare in burrasca

 

Dicevano che fossero più simili di due gocce d’acqua.

Eppure, i due non erano legati da alcun rapporto di parentela.

Ciò che li univa era, invece, un profondo, sincero, autentico legame.

C’era in entrambi, in modo diverso, la firma di Dio.

Il primo aveva l’animo puro di un bambino innocente, il secondo possedeva candore e coraggio.

Come spesso accade quando si è molto vicino a qualcuno, così vicino da assumerne sembianze e gesti, l’uno aveva preso, con il tempo, l’andatura dell’altro. Sembrava trotterellassero, tanto erano goffi e mal proporzionati. Gli occhi obliqui del primo richiamavano quelli delle popolazioni asiatiche orientali ed il suo corpo, piuttosto tozzo, faceva pensare, a ragione, che soffrisse di una determinata sindrome. Quando lui inclinava la testa, in modo del tutto originale, assecondando la naturale inclinazione a percepire il mondo in modo insolito, l’altro rispondeva, come chi risponde ad una giornata serena, all’anticipazione dell’estate, cristallino come acqua limpida.

La buffa fisionomia del secondo, era, invece, il frutto della mescolanza dei geni dei suoi avi.

Nonostante tutto, c’era una sosta tra loro e gli altri, un differimento tra i loro e gli animi altrui, qualcosa che li rendeva unici e particolari e al tempo stesso diversi e forse, per questo, più soli.

Non parlavano la stessa lingua ma si comprendevano alla perfezione.

Che piovesse, nevicasse o che il sole picchiasse forte sui tetti del paese, li si vedeva fianco a fianco, fedeli e mai stanchi, curiosi e felici, giorno dopo giorno, a rallegrarsi reciprocamente.

Entrambi amavano profondamente il mare, distante, immenso ed azzurro.

Lo amavano perché spesso li abbracciava con dolcezza, cullandoli tra la liquidità e la leggerezza del blu. Quello era il luogo dove sparivano le differenze, anche quelle tra razze.

A volte, finiti dalla stanchezza e bagnati come pulcini, vi si sedevano di fronte.

Il primo guardava l’immensa distesa, scorgendovi il soffio del bene; il secondo mescolava il suo sguardo agli occhi dell’amico, pronto a dare la vita per lui.

Allora, l’inadeguatezza di entrambi alla vita, scompariva, svanivano la diffidenza e la crudeltà.

Allora, il mondo tornava ad essere in debito nei loro confronti, irrimediabilmente, come solo un mondo cieco,  può essere nei confronti delle creature speciali.

In quei momenti non c’era il bisogno di parole. Restavano così accanto per ore, semplicemente sentendosi.

Fu proprio in uno di quei giorni, uno di quelli in cui qualcosa accade, perche deve accadere, che i due scomparvero.

Il mare si gonfiò di rabbia inondando il pontile e la spiaggia.

Il fragore risuonò forte come il grido di una madre, come il grido della terra quando viene spaccata.

Tutto accadde nel giro di pochi istanti:un’onda grande, grande come la notte del mondo, dapprima inghiottì il primo, per poi mangiarsi anche il secondo. Non ci fu neanche un attimo di esitazione, quello si lanciò dietro senza paura, pronto a difenderlo fino alla morte.

Fu un miscuglio di mani, zampe; fu un unico cuore.

Qualcuno dice che continua a vederli una volta in un posto, una volta nell’altro, silenti e vicini, uniti  nei reciproci pensieri. Qualcun’altro racconta che, in certe giornate di primavera, quando il cielo è così limpido che un solo respiro sembra offuscarlo, qualcuno sente risuonare nelle orecchie la risata argentina di un bambino down che gioca con il suo amico.

L’amico lo lecca, il bambino ride, inclinando la testa in quel suo modo così originale.

Più di uno, ascoltando la strana storia del bambino, del suo cane e del mare in burrasca, spera che, al momento del suo ultimo viaggio, il proprio compagno lo accompagni ovunque, entrandogli nell’anima e restando lì per proteggerlo e non lasciarlo, mentre anche lui farà altrettanto.

E se anche uno solo degli uomini che non ha mai sentito questa storia, imbattendosi in un cane, sentirà in lui il respiro di Dio, allora il mondo sarà migliore, perché avrà riconosciuto il bene più grande dell’umanità, l’amore disinteressato.

 

 

 

martedì 20 novembre 2012

Ci provo


Io ci provo a essere positiva.

Ci provo a credere che il futuro dei bambini di Gaza non sia fottuto.

Ci provo a voler credere che domani sarà migliore.

A togliermi dagli occhi le immagini di quei corpicini in fila sotto un cielo che riecheggia per le esplosioni.

Ci provo.

Oggi sarebbe la giornata mondiale per i diritti dell’infanzia.

Sarebbe.

Invece il prezzo del petrolio ieri ha chiuso in forte rialzo, grazie al raid israeliano su Gaza.

Ci provo a costruire giorno dopo giorno un’idea serena della vita.

Adesso vorrei solo correre all’asilo da mio figlio, prendermelo tra le braccia, affondargli il naso nella piega del collo, annusarlo fino al midollo. Toccarlo, dirgli che andrà tutto bene, che la mamma e il suo papà lo proteggeranno sempre.

Che ci saranno i fiori e la musica. E che balleremo, girando in tondo.

Che gli regalerò ricordi dentro cui perdersi, assottigliati dal profumo di cannella, avvolti in soffici trapunte e tazze di cioccolato.

Che sarò forza capace di spostare i monti, perenne e duratura a lui come l’aria.

Finche ce ne rimane.

Che qualunque nostalgia dovesse muoverlo, sarò comunque delimitante come una diga, pronta ad arginare in me le cose strazianti, sbarcandolo sulle mie rive.

Io ci provo a disegnargli ricordi privi di tristezza.

Ci provo.

Ma oggi ho solo lacrime per l’orrore di quegli occhi chiusi sotto un cielo assordante.

Lacrime che lui non vedrà.

 






lunedì 19 novembre 2012

Unfaithful. L'amore infedele


Oggi c’ho un’angoscia che la metà basta.

Mannaggia a me e a quando mi sparo dei film che a pensarci bene era meglio se quelle due ore le passavo a fare il punto filza e il macramè.

Non so chi di voi ha visto ieri sera “Unfaithful. L'amore infedele”film di Adrian Lyne (quello di 9 settimane e ½ per intenderci) remake di “Stéphane, una moglie infedele” di Claude Chabrol.

La trama è abbastanza semplice: Lei (Diane Lane) bellissima, lui (Richard Gere) pure, sono una coppia che ha tutto. Vivono in una casa da sogno alla periferia di NY, sono fighi, anzi fighissimi, hanno un figlio con delle orecchie improbabili, cosa che non sembra destare la loro preoccupazione e vivono una vita agiata, di quelle che per ammazzare il tempo ti devi fare il bagno nella vasca con le candele sorseggiando champagne o programmare un viaggio esotico che ti stanca al solo pensiero. Tutto sembra girare per il verso giusto, fino a quando a lei non parte il boccino e si invaghisce follemente di un ventottenne belloccio che fa del sesso una delle sue migliori armi di seduzione e vive a Soho vendendo libri che, molto probabilmente non hanno mai letto.

 E giù lì a darci dentro per circa un’ora in mezzo, di pioggia e di vento, ripassando più e più volte tutte le posizioni ipotizzate dal Kamasutra, che anche un po’ meno, grazie.

Il film racconta la trasformazione della passione in ossessione fino all’epilogo tragico della storia, quando il marito scopre il tradimento. Lyne è un mago nell’unire il torbido al sensuale, nel descrivere l’erotismo più glamour, meno nel trattare temi noir.

Ma dosa in maniera equilibrata curiosità, ossessioni, stereotipi sessuali e psicologia. La rappresentazione del sesso costruisce tensione. I dettagli e le immagini toccano figure simboliche resistenti e coinvolgono lo spettatore.

L’incontro dei due amanti è uno scontro, la collisione di due vite, due mondi diversi. Collisione spietata di due esistenze che non potranno più essere le stesse. Nessuno dei protagonisti potrà più essere lo stesso.

Il film di fondo è brutto. Lento, monocorde. Ma resti incollata al video solo per vedere fino a che punto la protagonista è talmente folle da mandare a puttane, nel vero senso della parola, la sua unione, la sua vita, il rapporto con il figlio, per una storia di sesso. Avendo tra l’altro un marito che è Richard Gere, ma questa è un’altra storia.

Lei è così brava che la prenderesti a sberle i giorni dispari e pure quelli pari, sbattendola al muro a forza di ceffoni. Una donna priva della qualsivoglia ragione che si lascia sopraffare dagli ormoni che neanche noi fivettare, e si perde dentro il tunnel dell’adulterio di quello più sporco, di quello più brutto che non salva niente, neanche la banale apparenza della pietà.

Perché allora mi ha tanto colpito, da rendermi oggi così, vulnerabile?

Perché è un film sulla colpa e sulle possibilità di venirne a patti.

Perché sembra volerci raccontare di un mondo dove la sicurezza, individuale, famigliare e sociale, si sfalda in un abisso di precarietà morale e non c’è amore che tenga.

Sull’'ambivalenza di due sentimenti contrapposti, il senso di colpa, la razionalità da una parte e la totale libertà dei propri istinti e l'irrazionalità dall'altra, che divora, divelte, distrugge.

Perché è un film sulla ricomposizione.

 Dell'adulterio.  Della frantumazione. Della morte.

In sostanza il povero amante è sacrificabile, infatti, fa una finaccia.

Mentre i due protagonisti, marito e moglie, appaiono in fondo vittime di perturbazioni sentimentali scaturite da un gioco casuale del destino ed il tradimento sembra che sia caduto dal cielo come un evento doloroso e nefasto, di cui nessuno ha colpa.

Una specie di virus intestinale.

Solo questa mattina, ripensandoci ho capito cosa mi ha fatto veramente male.

Uso le parole non mie, perché descrivono perfettamente le mie emozioni “ mi annienta la
possibilità di baratri emotivi così vicini alle nostre esistenze, dentro possibilità che possono all'improvviso concretizzarsi, un po' come le centinaia di persone che ordinate entrano ed escono dal metrò senza mai sfiorarsi e conoscersi, mentre in una strada vuota è possibile mutare la propria vita per imprevedibili collisioni atmosferiche, come il vento che trascina le pagine dei libri, alcune si posano vicine altre volano lontanissimo”.
Ecco. Non avrei potuto descrivere meglio l'improvvisa solitudine che assale senza una ragione, senza un motivo apparente e traccia solchi, abissi, voragini.
Quando l'inferno ti entra dentro e si fa dirupo tra le esistenze.
Improvvisamente, inaspettamente.
Qundo scordi di essere un essere pensante.
 
E voi, credete sia possibile ricomporre una coppia strappata?






venerdì 16 novembre 2012

La luna nel pozzo


E’ un tempo pieno di attese e gonfio di sogni.

Ad ognuno la sua luce.

E’ la diversità del pozzo a cambiare la luce della luna.

Ma ogni profondità, ha una fine.

Vi abbraccio.

Buon fine settimana.

giovedì 15 novembre 2012

Spino il delfino. L'angelo delle acque.


Ho un tatuaggio sul polso. Spino il delfino, che mi accompagna da diciannove anni.
Lui è stato il mio primo tatuaggio e sta a me, come l’infinito alla mia personale eternità.

I miei tatuaggi mi rendono fiera, sono le tappe del mio percorso, gli incisi del tempo, frammenti rubati alla caducità, cristallizzati sul mio corpo.
Perpetui, perenni e presenti a me stessa, per il tempo del mio sempre.

Ognuno ha una storia, ognuno racconta un pezzo di quella che ero.
Spino il delfino è l’angelo delle mie acque. Della mia essenza liquida.

Adoro i delfini.
Se mai dovessi diventare ricca, schifosamente ricca, voglio comprarmi un’isoletta nel mare indiano, o caraibico abitata da me e da loro.

Va beh, sono ammessi pochi altri.

Secondo una leggenda greca, questo mammifero sarebbe un pirata pentito.

Il pirata fu trasformato in quest’animale dagli dèi come punizione per non so quale peccato, forse averli sfidati, e dopo sarebbe diventato amico degli uomini.

Così oggi Lui cerca di salvarli dai naufragi.

Esistono molti racconti di uomini caduti in mare e portati in salvo dai delfini.

I Cretesi credevano invece che, quando un uomo moriva, la sua anima fosse scortata nell'aldilà da un gruppo di delfini.

I Celti, invece, lo consideravano una creatura marina positiva, e credevano che potesse togliere i crimini dai colpevoli o fornire un perdono a chi ne avesse bisogno.

Questo simbolo di riscatto, in un senso morale o spirituale, ha reso il delfino, un simbolo di rinascita.

Ma lo ha reso, anche, simbolo di salvezza e protezione.
Una specie di “angelo delle acque” appunto, che veglia su di noi durante i viaggi.
E quel viaggio può essere la stessa vita.

Lui, rappresenta la vitalità di chi cerca di rigenerarsi da momenti difficili e le tempeste della vita.

I delfini vivono all’interno di una comunità, dove si proteggono a vicenda, in armonia fra loro. Hanno un proprio modo di comunicare ed hanno un carattere vivace e giocoso e una brillante intelligenza.
A differenza di alcuni umani.

E siccome hanno anche dinamiche familiari forti e un senso sviluppato per il gioco, la lealtà e per la liberta, queste caratteristiche me li rendono irresistibili.

Li ho visti più volte. In diversi oceani. Volteggiare e far piroette inchinandosi al nascere di nuovi giorni.


Ma la cosa più bella che desideravo fare era, nuotare insieme con loro.

Così, con la testardaggine che mi contraddistingue e, la petulanza di una goccia cinese, con la quale riesco ad ottenere le cose per sfinimento, sono riuscita nel mio intento.

A largo della spiaggia di Kizimkazi, vicino al villaggio di pescatori Kizimkazi Mkunguni, nella zona sudovest dell'isola di Unguja a Zanzibar è avvenuto il nostro incontro.

E’ stato incredibile. Diverso da come lo avevo sempre immaginato. Questi mammiferi sono enormi, veloci e incredibilmente grandi. Vederli passare vicino, ti blocca il cuore in bocca e ti ferma il fiato.

Erano sotto di me, e poi sopra, e poi accanto e poi erano tanti.

Inavvicinabili. Intoccabili. Sensibili e imprevedibili.

Lontani come le chimere, vicini come i sogni.

Perché la libertà non la puoi afferrare, non la puoi trattenere. Gli angeli li puoi pregare, ma non puoi sapere quando e come veglieranno su di noi.

Il mio incontro è avvenuto con animali selvatici, quindi non abituati al contatto ma abituati all’uomo.

Chiunque abbia avuto la fortuna di vivere questa esperienza vi racconterà che è incredibile, così coinvolgente a livello emotivo e psicologico da stordirti rendendoti conto di essere completamente impreparato alla bellezza.

Scrivo questo post perché i delfini che mi ascoltano veglino sul viaggio di chi deve arrivare dove sa.

E perché credo fortemente nelle terapie nelle quali sono coinvolti gli animali.
 Nella PET therapy, nella delfino terapia, in tutte quelle tecniche che richiedono la partecipazione degli animali, abilissimi a cogliere le emozioni e gli atteggiamenti dei ragazzi e delle persone problematiche, a captare le loro paure, i loro stati d’animo con una dolcezza rara, a noi umani sconosciuta.
E’ riscontrato da diversi studi medici che il contatto con gli animali è terapeutico.

"L’incontro con gli animali ha effetti così positivi sull’evoluzione psichica e sul benessere dell’uomo, può certamente costituire una valida integrazione ai programmi psicoterapeutici o educativi e spesso riesce a far fare un balzo in avanti in percorsi evolutivi non certo agevoli.
Psicologi, medici e psichiatri se ne stanno accorgendo e, sempre più numerosi, offrono ai pazienti occasioni che permettano loro di uscire, almeno ogni tanto, dall’ambiente freddo, e a volte un po’ ostile, dello studio medico. La terapia assistita dai delfini è consigliata sempre più di frequente dagli specialisti che seguono bambini autistici o con gravi disturbi della comunicazione, psicoterapeuti che hanno in cura persone depresse hanno notato sensibili miglioramenti nei pazienti che hanno seguito programmi di delfinoterapia.
E’ in questo senso che l’esperienza con l’animale può definirsi propriamente “terapeutica” ed essenziali, in questo caso, sono il ruolo e la competenza dei professionisti che gestiscono e orientano il programma terapeutico nel suo complesso, con i mezzi propri dell’analisi del profondo, della psicoterapia o della pedagogia”.

Alcuni incontri ti segnano. Alcuni sguardi t’inchiodano a domande senza risposta.

Due sono gli incontri che mai dimenticherò.

L’incontro con i delfini.

Il primo incontro con gli occhi di mio figlio.

Entrambi portano il senso dell’immensità.