venerdì 31 agosto 2012

L'eta dell'innocenza e dei miracoli.


Ieri, mentre mio figlio abbozzava una guerriglia con l’asfalto resistendo di tutto punto ai codardi sampietrini, armato di tenacia e cocciutaggine, tali per cui a confronto la lotta partigiana più tenace sarebbe stata uno zuccherino rispetto alla resistenza attuata dal nanetto nell’impresa di camminare da solo per la strada, è successa una di quelle cose che ti fanno pensare, almeno a me.
Un nanetto indiano, dalla bellezza al cumino, gli occhi profondi dell’Oriente e lo sguardo dolce di chi è buono per indole, si è avvicinato a mio figlio, biondo ed etereo come un disegno di Peynet e gli ha dato la mano.
I due, trotterellando incerti, stretti, le manine di colori diversi intrecciate dentro un reciproco nodo, hanno percorso insieme un pezzo di strada. Dietro, il mio sguardo vigile e quello di un signore dall’età incerta nascosta sotto un turbante di colore arancione.

Forse anche il signore dal copricapo arancio avrà pensato all’indeterminatezza della mia età o gli sarà sembrato strano che quel bimbo così biondo dai grandi occhi grigi fosse proprio il figlio della ragazza scura.
Vallo a spiegare a chi ci vede in giro che il padre è chiaro come un irlandese e che mio figlio ha i suoi stessi colori e che io non sono la tata cubana e non vengo tanto meno da Puerto Rico.
Ho pensato, guardandoli, alle foto di Oliviero Toscani e alle campagne pubblicitarie del marchio Benetton, dove l’immagine di bambini di razze, culture, colori diversi, ridono a crepapelle davanti allo stesso obiettivo, senza problemi, senza parole, naturalmente.
Così è stato per mio figlio e per il bimbo indiano. Si sono guardati, hanno riso con gli occhi e hanno deciso di dividere un pezzo dello stesso percorso.
Senza presentazioni, senza ragioni, senza.

 Nessuna sovrastruttura da decomporre, nessuna ferita da rivendicare, né torte né ragioni.
Non c’era tra loro un Dio diverso, un oro per cui combattere, la ragione del più forte.

C’erano solo loro due, un bimbo chiaro e uno scuro che si tenevano per mano, improbabili, precari, terribilmente buffi e infinitamente lirici.
E’ stata una rima, un frammento di universalità. E’ stato la coda di un’emozione, un verso emerso da una giornata lunga e faticosa che mi ha fatto sentire, per poco, per un breve istante di appartenere alla stessa madre. Stessa sorgente, stessa causa, medesima radice, pelli diverse.
Ho pensato ai bimbi incontrati in Cambogia in Tailandia in Africa e altrove.
Ai loro volti, qualcuno con i denti sgangherati, i vestiti sdruciti, a piedi nudi nel fango o nella sabbia polverosa di un continente lontano. A quanto siano simili le loro richieste: ”One dollar, please”con quelle di mio figlio che in un’inverosimile lingua bambinese mi chiede di fare l’ennesimo giro di giostra.
I loro animi sono bianchi, candidi come può esserlo il colore della giustizia, indipendentemente dal colore della pelle o del credo dei genitori.

I loro cuori sono colmi di meraviglia, bicchieri pieni di sogni e aquiloni.
Le farfalle disegnano strane parabole nei loro ragionamenti, eppure trovano sempre un verso e un senso. Hanno sguardi di stupore, le lucciole negli occhi e pagliuzze dorate con cui tessono realtà d’incanto.  Sono così i bambini, giocano nei posti più scomodi, con quello che hanno, mestoli, scatole, rami o foglie e con queste inventano storie. Storie sotto, storie sopra, storie dentro la scatola dei cerini. Poi, stremati da tanto viaggiare si addormentano, improvvisamente crollano.

E nel silenzio, all’ombra dei giocattoli di fortuna, mentre riposano i draghi, i re, i conigli e le principesse, quando anche il vento e il sole tacciono per non svegliarli, anche noi adulti dovremmo tacere provando ad ascoltare il suono dei tuoni e delle saette. Dovremmo guardare ciò che loro vedono.
Andare su, più su, dove il vero non è vero, oltre ciò che si chiama fantasia.

Oltre i nostri limiti e le nostre ostilità e provare a prendere per mano un uomo dal turbante arancio.

giovedì 30 agosto 2012

Et voilà!


Uscì un coniglio dal suo cappello e corse veloce verso le quinte, dileguandosi dietro il sipario.

Il mago lo guardò sorridendo.

Il cuore gonfio di inquietudine batteva un ritmo accelerato; avrebbe conosciuto il mondo e il suo popolo, non più filtrati dalle trame di un cilindro di scena.

Le orecchie rivolte all’indietro in una posa aerodinamica, il naso in movimento, teso nello sforzo di riconoscere odori a lui estranei, gli occhi vivi e vigili, puntati come armi su obiettivi da identificare.

La curiosità più forte della paura, più ipnotica del canto delle sirene.

Corri, corri, corri coniglio a conoscere le meraviglie del mondo, luogo tortuoso dagli infiniti anfratti.

E corse.

Corse attraverso le strade della sua Samarcanda, ma vide uomini coperti da cartoni lungo i margini.

Corse su colline d’erba e vide distese di croci bianche senza nomi.

Corse allora le coste di un mare dal colore incerto e umiliato.

Si imbatté nel compromesso ma non lo riconobbe; si interrogò sulla natura degli elmetti molto lontani dai cilindri a lui noti.

Piegò le lunghe orecchie sotto i suoni delle sirene, annusando il profumo acre delle macerie e del pianto.

Incontrò un vecchio che gli presentò la solitudine, mentre una bambina gli raccontò di abbracci ambigui.

Corse quindi dall’altra parte del mondo, su terre ferite, bruciando i confini di dittature e democrazie.

Corse più veloce del vento e non capì.

Con il naso rivolto all’insù, lo sguardo verso il cielo, rimpianse la magia della sua casa.

Et voilà!, con un balzo rientrò nel suo cappello.

Il mago sorrise, sapeva che sarebbe tornato.

mercoledì 29 agosto 2012

Irrimediabilmente, pollo.

Dedico questo post alla mia amica Marzia http://lasciasulluscio.blogspot.it/ cercando di rispondere ai suoi interrogativi di polli e di aquile.

 Lei si chiedeva se, trattando un pollo come fosse un' aquila, questo fosse capace un giorno di volare o se invece, allevandolo da pollo, fosse comunque capace di scappare dall'aia da solo.

In altri termini la domanda era se , siamo tutti destinati a mettere in atto gli schemi con cui siamo cresciuti, indipendentemente dalle nostre nature.

Ho commentato il suo post affermando che uno su mille ce la fa.

Oggi, ho scoperto che manco quell'uno ce l'ha fatta!!!!

Un altro passo verso la vittoria

http://www.repubblica.it/cronaca/2012/08/28/news/procreazione_la_corte_europea_boccia_parte_della_legge_40-41595506/?ref=HREC1-8

Mi auguro che, pezzo dopo pezzo, come sta accadendo, venga smontata questa assurda legge.
Mi auguro che rimanga in mutande!

martedì 28 agosto 2012

Di separazione e di vento

L’ho guardato dritto, dritto negli occhi spiegandogli che sarei tornata, che non doveva preoccuparsi, sarebbe stato solo per poche ore.
Gli ho preparato il latte, gli ho accarezzato i capelli, annusandoli, respirandolo.
Odora di buono, di fieno e di lavanda, di attese, profuma di estate.

Quella bella, quella senza afa, quella di bucato steso all’aria aperta e di pannocchie gialle.

Non era contento che io me ne andassi a lavoro, nonostante ami stare con sua nonna, mia mamma.
Lui vuole la sua di mamma.

Si attacca alle gambe, ci affonda il visino e piagnucola una nenia atavica.
E’ la litania dell’abbandono, il pianto del distacco, la paura della separazione, primitivo e ancestrale come l’istinto. Lui non è mio, non è una mia appendice. Lo sento e lo vivo come un mio prolungamento ma è altro da me.

Lui sa che siamo due cose separate, percepisce nitidamente la distinzione tra me e se stesso, sa che non siamo più un’unica cosa.
Eppure, ogni mia assenza è dramma, ogni allontanamento, separazione.

E allora mi chiedo se sia giusta questa lontananza, se sia costruttiva quest’assenza, se lo fortificherà stare lontano da me, suo intero mondo, o se invece, imparerà sin da adesso il senso e il peso della separazione.
 Mi chiama, come se io dovessi sparire per sempre, mi prende, come se potessi in qualche modo sfuggirgli.

Lui non ha gli strumenti degli adulti, non ha la capacità di conservare la mia immagine e non conosce ancora il valore del ricordo. Sa che se mi nascondo poi riappaio, che se mi copro il viso, poi lo scopro, eppure, ha una fottuta paura che io lo lasci.
Come conosco questo sentimento.

Mi sarà sempre familiare, intimo e profondo come le mie viscere.

Mi sarà sempre vicino, come un amico, come una parte nascosta.
La paura del distacco fa parte di me come la fragilità della separazione, la sensazione di essere vuota di non possedermi abbastanza da colmarmi, mi accompagna da sempre.

Da prima delle mie perdite. I miei lutti hanno solo ampliato il vuoto emotivo.
E porto con me l’assenza di mio padre e non solo.
Non voglio questo per lui. Voglio che la lontananza o la distanza siano sorrisi e labbra e volti, dove ritrovarmi. Che non conosca mai il senso di colpa. Che lo guidi l’integrità morale, ma che non ne sia rigidamente schiavo. Voglio, vorrei, renderlo libero da ogni forma di dipendenza, parentale, emotiva, ambientale. Voglio che io sia certezza, oltre il vento e la terra, che sia per lui radice e volo.

E quando deciderà di lasciare tutto e partire, perché so che lo farà, non riuscendo a guarire ferite, o semplicemente perché cercherà altro, non dovrà avere paura dei cambiamenti come me.
Dovrà essere capace di gestire i pezzi della sua vita, come il migliore dei giocolieri.

Percorrerà chili di chilometri, girerà in lungo e in largo il mondo, camminando fino a farsi venire le vesciche ai piedi, di modo che ogni opportunità sarà per lui ricchezza.
E mi avrà dentro.

Mi cercherà nel sorriso di un bambino, dentro ogni cosa, dentro alle scarpe, sopra ai tetti, nella panna, nel gelato, nei tramonti, nella bellezza, nel volto di una vecchia, nel cuore di un tempio, nelle emozioni, nelle distanze, nell’emisfero australe, nell’oceano indiano e in quello pacifico, fino a quando, non so come, mi troverà dentro.
Lì, ad attenderlo come sempre.
Non sarà più lui ad aspettare che la sua mamma rientri dal lavoro, ma sarò io ad aspettare lui che torna dal mestiere di vivere.

A volte, in certi strani giorni, quando la sua voglia di me confina con il cielo e le nostre mani s’intrecciano davanti al chiarore di particolari tramonti, sento una litania lontana, primitiva e ancestrale come l’istinto materno.

 

 

lunedì 27 agosto 2012

Ricaricarsi


Sono stata due giorni qui http://www.agriturismonatalini.it/a ricaricare le batterie, crogiolarmi nella piscina, ritrovare un po’ di pace.
Una mini vacanza per staccare un pò.
Staccare da me stessa non ci sono riuscita, per ora, ma un pò dal resto, si.
Per staccarmi mi ci vorrebbe un viaggio mooolto più lungo.
 Peppe, o meglio Giuseppe, il proprietario dell’Agriturismo è simpaticissimo, disponibile, ama i cani e permette di tenerli liberi, compatibilmente con il loro carattere e quello degli altri ospiti.
Si mangia benissimo e per chi non conosce l’Umbria, la posizione geografica in cui si trova, permette di visitarla comodamente. Si trova a Trevi e la sera sembra di ritrovare un vecchio borgo antico.

Insomma è una buona soluzione per un week end al volo ad un costo contenuto ma di buona qualità.

Ve lo consiglio, ma non ci prendo una lira per la pubblicità.
Ah, la pasta e le torte sono  fatta in casa proprio come quelle di nonna papera!!!!!!

giovedì 23 agosto 2012

Segni particolari? ”Donatore”

 Il Comune della mia città è capofila per un progetto pilota di grande valore etico e civile, a mio avviso, che scuote le coscienze e muove gli uomini avvicinando i reciproci cuori.

Il progetto consente ai cittadini di esprimere, al momento del rilascio o del rinnovo della carta di identità, la propria volontà di donare o meno gli organi.

Il consenso o il diniego avranno immediato valore legale e saranno registrati in tempo reale in un data base dei potenziali donatori del Sistema Informativo Trapianti.
“La donazione degli organi è un gesto di grande responsabilità ed altruismo perché permette di salvare vite umane”, dice il Ministro della Salute Renato Balduzzi, ma dal governo non sento alcun segnale di civiltà nei confronti dell’abrogazione degli articoli della legge n. 40/2004 che proibiscono la donazione di gameti, l’ovodonazione, in sintesi la fecondazione eterologa.

 So che, quanto sto per scrivere, susciterà l’orrore di alcuni, la diffidenza di altri e la pace di alcuni.
 Perché la donazione di organi è un atto di un umanità che abnega mentre la donazione di gameti è ritenuta moralmente raccapricciante?

Perché chi è costretto a ricorre alla donazione di gameti deve sentirsi in colpa nei confronti di Dio, di una Chiesa lontana dal dolore umano, nei confronti di un figlio che è, a tutti gli effetti, un figlio proprio?

Oggi voglio parlare di fecondazione eterologa. Vorrei provare a pensare di equiparare la donazione di ovuli e sperma alla donazione di organi, midollo, o a qualsiasi altro tipo di donazione senza la quale un essere vivente non vivrebbe.
 
Perchè, direte voi, oggi   fai un post sull'argomento?

Perché odio le ingiustizie, l’ipocrisia, la mancanza di empatia.
Odio una Chiesa che non comprende ma giudica.

Odio che qualcuno definisca al mio posto ciò che è giusto o sbagliato per me e che si arroghi il diritto di scegliere al mio posto.

Odio alcune idee degli altri ma mi farei uccidere per la loro libertà di espressione.
Odio che ai sentimenti quali la colpa e la vergogna, tipici di chi non riesce a procreare, si aggiungano quelli  legati al senso del peccato.

Come ho già detto nel mio post la valigia dei sogni http://mammamimmononsolo.blogspot.it/2012/05/la-valigia-dei-sogni.html, parlando di pma, “l’infertilità, sterilità o qualunque nome si voglia dare alla difficoltà a mettere al mondo figli è una malattia e lo è nell’anima prima ancora che nel fisico. E’la malattia del vuoto, il vuoto di qualcosa che non c’è. Il tipo di vuoto di cui parlo è simile al vuoto che si prova per una perdita, un abbandono, una morte. Ma è anche simile alla sensazione che si prova dopo una delusione, dopo un tradimento. E’ la sensazione di essere stati traditi, imbrogliati da quell’ordine, atavico e biologico, naturale, per il quale noi donne, siamo destinate a procreare e non riuscendoci ci vergogniamo sentendoci in colpa. Il vuoto che racconto ha a che fare con la percezione del tempo, con l’insostenibile peso del pensiero della fine. Il tempo che passa, inarrestabile, feroce, scorre verso qualcosa che non torna indietro, verso la vecchiaia, la morte. La mancanza di un figlio ti priva della possibilità di lasciare qualcosa di te, dopo di te, al mondo.

 Occorre aver intrapreso il viaggio verso un figlio che non c’è, per capire che l’infertilità è la malattia del vuoto; l’assenza ti lacera come un lutto perdendo la proiezione che hai di te nel futuro.

Allora, quando questo vuoto ti assale, ti devi fermare e ti devi chiedere cosa sei disposto a fare per colmare il buco che senti. Puoi urlare a squarciagola, sbattere la testa contro tutti gli spigoli dei muri della tua e delle case altrui, spiccare dal calendario tutti i santi, compresi i patroni,ucciderti di moijto, toccare il fondo e poi riemergere e cominciare a preparare la valigia”.

La valigia dei sogni, appunto.
 
Ora, non vorrei parlare delle tecniche della fecondazione eterologa, di statistiche o del numero crescente di coppie che vi ricorrono, (ci sono siti e blog molto più autorevoli del mio e segnalo a riguardo eterologa.blogspot.com), ma di sentimenti.

Delle emozioni, le sensazioni, le paure, le attese che ruotano attorno alla donazione eterologa, vale a dire la donazione di ovuli o sperma.

Credo fortemente di comprendere e sentire le donne e gli uomini che vi ricorrono, perchè sono incline al dolore altrui.
Non ha la benché minima importanza il come un figlio arrivi.

Ho imparato questo durante il mio viaggio. E insegnerò a mio figlio che nessuno può scegliere per lui.
Fermo restando il diritto di scelta della coppia, trovo che le ragioni di opposizione a questo tipo di  donazione possono essere solamente di tipo religioso, non trovando altra ragione logica o etica a questo divieto, ricordo a coloro che, per ragioni religiose criticano questa tecnica che lo Stato Italiano è uno Stato laico privo di religione di stato (dal 1984) e che, per questo, dovrebbe rispettare le opinioni morali di tutti i suoi soggetti senza volerne  imporre una specifica.

A mio avviso non vi è nessuna differenza tra la donazione eterologa, omologa o l’adozione di un bambino. E’ genitore chi ha partorito allo stesso modo di chi non lo ha fatto ma ha allevato un figlio. I genitori sono coloro che allevano, sostengono, supportano, seguono giorno per giorno i figli dalla nascita (o comunque da tenera età) fino all'età adulta, indipendentemente da come li hanno materialmente concepiti.

 Il concepimento è un atto meccanico che può avvenire in circostanze anche non legate all'amore o può avvenire artificialmente ma con un amore immenso.

Sinceramente, non trovo amore più grande di quello provato da due genitori nei confronti del proprio figlio, sia esso biologico o adottato o trovato in una cesta davanti all’uscio di casa.

E’ solo diversa la strada che si decide di prendere per arrivare a lui.

Qualunque sia la scelta che si compie, il bagaglio da preparare e da riportare è pesante.

 
Qualunque sia il viaggio, sarà una prova di coraggio.

Sarà coraggioso accettare la propria condizione, come lo sarà intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita, una fecondazione eterologa, un’adozione o riscegliere il proprio/a compagno oltre il progetto figlio, reimpostando il senso del vivere insieme e decidere di vivere anche senza figli. Di vivere e non sopravvivere.

Trovo vergognoso, per uno stato laico e per una società civile lordare e condannare qualcosa di assolutamente pulito come una scelta d’amore come la fecondazione eterologa, può essere.

La valigia però, non dovrà più contenere sentimenti da nascondere sotto strati di segretezza perché non si tace il coraggio.

 
Ora “che la Chiesa consideri la libertà e la laicità dei valori pericolosi, lo posso anche accettare. Posso sforzarmi di capire, rattristandomi per l’umanità, la scarsa apertura e la poca disponibilità verso il progresso scientifico e sociale. Ma non accetto e mai lo farò che, una reazionaria istituzione che tanto avrebbe da pensare per se, condanni e lordi qualcosa che non ha niente a che fare con la sporcizia morale che tanto la ossessiona. Perché non condannare anche gli anticoncezionali, i trapianti, la chirurgia, la scienza medica, la donazione degli organi, la chemioterapia, i salvavita: non interrompono forse tutti, il naturale decorso delle cose?”

Allora mi rivolgo a te che per ragioni religiose condanni una cosa che non conosci.
Dico che il tuo credo dovrebbe alleviare il dolore in nome della pietà e dell’empatia. Dovresti comprendere e non giudicare, provare tenerezza, cingere dentro un abbraccio e consolare.

A te, madre e a te padre che ricorri ad una donazione eterologa, vorrei dire che non sei  sbagliata/o, non sei difettata/o, sterile, che il percorso che hai intrapreso non è peccato, non è un’offesa a Dio, ma un atto d’amore  e solo tu e un Dio scevro della stupidità umana, conoscete il valore di dare e ricevere vita e mai come adesso dovrebbe restarvi accanto.

Tuo figlio è tuo.
 A te che hai deciso di donare, dico grazie a nome di tutti quelli che non hanno più la forza di gridare.

 

 

 

martedì 21 agosto 2012

Il sole di certi ricordi

Ci sono ricordi che si stagliano nella memoria distinguendo il prima e il dopo.
Emergono dall’oblio e si fanno roccia, guglia.
Certi ricordi sono come l’orizzonte, si espandono, occupando ogni centimetro del tuo essere.
Sbiaditi con i margini ingialliti e con i bordi strappati, ti abiteranno comunque, sempre, finche la memoria avrà modo di fare il suo dovere e il cuore di sopportarne il peso. Li porti con te sotto la doccia, nelle tasche della tua pelle, in quel taglio sotto al ventre. Sono con te quando respiri, attaccati ai lati dei tuoi tatuaggi, agli angoli di ogni spazio.
Ti avvolgono come la più pesante e leggera delle coperte.
Il primo Agosto del 2010 ti hanno impiantato nella mia pancia.
Prima di te, la tua ricerca, sapere di essere tua madre ma non poterti abbracciare, cercarti ovunque, spasmodicamente. Il prima è un grido, lancinante, che strozza anche il respiro.
Il dopo sei tu. Il dopo è abbracciarti, conoscerti, sapere che non potevi essere diverso da come sei.
Mentre salivi su, su, attraverso quella piccola cannula, nel viaggio a ritroso dentro le mie viscere, io ti accoglievo, cantando sotto voce Nina Zilli, per ingannare il freddo di quelle luci al neon.
“Non pianga, Signora, altrimenti il bimbo sente”-  mi disse un infermiere dal corpo tozzo ma dall’animo sottile. No, signore infermiere, non piango, ho solo tanto freddo.
“Lo vede? E’ proprio qui”. Un puntino, piccolo, piccolo come la luce di una lucciola mi salutava dal monitor. Ti hanno posto in un lato del mio utero e in quel luogo corporeo ci siamo riconosciuti.
Non c’era più distanza, non albergavi più nel mio sogno, eri, dove dovevi essere.
Dentro di me.
Attaccati, attaccati forte, ricordo di aver pensato, non mollarmi. Tienimi con te, tieniti forte a me, qualunque tempesta ti scuota.
Tornata nella stanza, il tuo papà ci ha abbracciato. Me e la nostra pancia. Non ascoltava Nina Zilli, eppure aveva gli occhi lucidi.
Dodici giorni dopo, le beta indicavano che c’eri.
Il dodici Agosto del 2010.
Certi ricordi sono come orme, stampi indelebili impressi, come le croci dei nostri destini.
Cinque giorni, cinque giorni è durata la nostra felicità, perché il diciassette Agosto del 2010 è cominciata la nostra seconda battaglia per non perderci.
“Non si preoccupi, Signora”-  mi dissero dal Centro che ci seguiva, - “le macchie che vede sono macchie da impianto”.

Eppure, il rosso vivo di quel liquido, non era impianto, eri tu che lottavi per non lasciarti andare.
Io lo sapevo e tu lo sapevi.

Forse, lo sapeva anche il medico del pronto soccorso che scuoteva la testa, mentre cercava di sentire il tuo cuore.
Non lasciarmi, non lasciarmi ora.
Attaccati forte, forte, come una cozza allo scoglio, come il francobollo alla sua busta, come un koala. Attaccati, non scivolare via. Sarò brava, ti coverò, ti cullerò, sarò una brava mamma, ma tu non lasciarmi.
Siamo stati così per tre mesi. Io sdraiata immobile, cattiva, piagnucolosa, terrorizzata.
Tu, in balia di un liquido avverso, forte e saldo, hai resistito.
Abbiamo vinto. Per fortuna, per statistica, perché a volte si vince.
Perché era scritto che dovevi raggiungermi.
Sei nato il tredici Aprile del 2011.
C’era il sole il giorno in cui ti hanno messo di nuovo dentro di me, c’era il sole il giorno in cui sei nato.
Ci sono ricordi che solcano la memoria, che si fanno spartiacque tra il prima e il dopo.
Ci sono soli che scaldano il freddo delle ossa.




lunedì 20 agosto 2012

Di un mare sottosopra, di vecchi ricordi, di un brevetto e di libertà.

"Alla rovescia, agitata e sconvolta, guardo le immagini dello tsunami.

Il mare è capovolto, sottosopra, a pancia in su, con i piedi all’aria.

Si è confuso, si è stravolto, inondando, distruggendo, portando via sogni e speranze.

Forse, si è solo smarrito; dimenticando di essere ordine e quiete e ricercando se stesso, nell’agitazione e nello scompiglio che solo le cose grandi sanno avere, ha prodotto il caos.

Penso al mare, al mio mare, a quello che è e a quello che era, al sotto e al sopra, ai grovigli della natura e di quella umana, alle nostre usuali bizzarrie, che forse riflettono proprio le follie dell’animo dell’universo.  

Il mio mare, sopra, è fatto di timori e soddisfazioni, piccole vittorie di personalissime battaglie.

Il mio mare è fatto di ricordi, lunghe bracciate per imparare a nuotare per correggere una schiena storta per placare ansie di un identità in evoluzione.

Il mio mare è pieno di colori, gioia e pace dove perdersi per ritrovarsi poi, lungo la linea sottile che lo separa dal cielo.

Il mio mare è fatto anche di una grande riva, dove spesso mi areno e sponde lontane che riesco a raggiungere grazie all’aiuto delle persone che amo che mi illuminano come fari, indicandomi le varie direzioni.

Il mio mare è anche la casa del sole che sorge sempre eternamente ad est, ma nonostante la sua ripetizione perpetua, mi continua ad emozionare.

Miliardi di litri d’acqua turchina che ballano in mezzo alle tinte attenuate dall’astro calante.

Il sole che discende dal sommo di un’immaginaria parabola, sotto la linea dell’orizzonte per sfiorare ancora una volta la luna in fuga e riaffiorare il giorno seguente, giallo e caldo, come sempre.

È la scena congelata di un istante infinito, unico e irripetibile, breve e fugace, nella sua eterna ripetizione. Così luminoso da farci dimenticare che un altro giorno è finito.

Il mio mare sotto è volo e libertà.

E’ una mano che mi stringe forte e mi accompagna in un mondo sommerso.

E’ il suono sordo che emettono gli erogatori nel silenzio di un tempo che pare fermato.

Il mio mare sotto è stupore e rispetto; una pausa sospesa in un’altra dimensione, l’incontro con quell’oltre che a fatica si ricerca, oltre le cose, oltre il comune, oltre il bello ed il brutto, comunque oltre.

Il mare sotto è esercizio di vita: guardare non toccare, non sciupare, godere di doni non pretesi, con l’incredulità pura, propria delle cose non attese.

 Il mio mare sotto è un intervallo, la digressione dall’essere uomo; siamo pesci e siamo uccelli, nella calma di un blu che da ristoro.

Anche il mio mare sotto è timore e soddisfazione; timore per l’immergermi nella profondità di un’entità diversa e soddisfazione nel vincere la paura che l’accompagna.

Il mio mare sotto è un tuffo, un salto dentro, dentro la liquidità di batticuori e sussulti.

Sei sotto sopra mare, come spesso lo siamo noi uomini, intorpiditi da affanni perenni, intrappolati da nodi e stupidi viluppi.

Ci vuole un po’ di coraggio e tanta pazienza per ritrovare i nostri reciproci versi; tu, il tuo sopra ed il tuo sotto, noi, il nostro stare eretti, dritti in piedi, davanti alle difficoltà, noi, il nostro stare piegati a raccogliere le cose infrante, nell’inchino, logoro ma reverenziale, davanti ai tuoi spettacoli".
Racconterò a Daniele di un richiamo prenatale, sussurrandogli il suono sordo del silenzio di un tempo che pare fermato. 
Di una parentesi liquida e del nostro bisogno di pace. Della fluida ricerca   di batticuori e sussulti, del bisogno di credere in qualcosa d’infinito che dia senso al nostro passaggio sulla terraferma o più semplicemente del bisogno di scoprire i colori e la vita.
Ho preso il mio brevetto open water diver SSI 4830501153 e per me è stata una piccola vittoria; la conquista per aver superato il timore per l’immergermi nella profondità di un’entità diversa, insieme alla soddisfazione nel vincere la paura che l’accompagna.
Credo sia questo il senso del mare: abbiamo tutti piccole sfide quotidiane, partite aperte, partite chiuse, pezzi da raccogliere, alcuni da lasciare dove sono in un incostante andare avanti e indietro.
E lui è lì, eterno e immobile, infinito e unico, sempre pronto ad accoglierci, davvero una grande riva su cui approdare.
In fondo, anche nella vita non sottomarina, ogni cosa ha il suo rovescio, quindi conviene sopportare quelli che sono dei piccoli inconvenienti di fronte allo spettacolo meraviglioso che poche cose, come il mare, sanno offrire.

venerdì 17 agosto 2012

Cento motivi per essere infelice, uno per non esserlo


Ci sono giorni che definire “giorni no” è un eufemismo. Che ti svegli la mattina, dopo che non hai chiuso occhio tutta la notte perché tuo figlio, nonostante abbia compiuto sedici mesi, si è svegliato ogni quarto d’ora, che cerchi di svegliarti con un maledetto caffè e la macchinetta elettrica, che lo fa tanto buono, decide di rompersi proprio mentre lo stai preparando.

Ci sono giorni no, quei giorni che iniziano proprio male, che scendi dal letto e sbatti il mignolo del piede destro contro lo spigolo del mobile e ti ricordi di essere ovviamente scalza. Che cominci la giornata scaricando dal calendario tutti i santi del paradiso, pentendoti nello stesso istante in cui lo fai, mortificata per non essere grata per quanto il destino ti stia dando e conscia del fatto che  il vendicativo fato si riprenderà sotto altra forma la fortuna sfacciata di cui stai godendo.  
Quei giorni in cui, salendo sulla bilancia, ti accorgi che hai messo su due chili nel giro di tre notti e che il tubino nero che hai comprato ti farà somigliare alla centrale elettrica di Cerreto più che alla mamma figa che avevi in mente.

Quei giorni in cui i pensieri sbattano da una parte all’altra del cervello come farfalle in un bicchiere da caffè. Giorni in cui la depressione ti travolge come un uragano e ti chiedi “ ma quantocazzo dura sta  depressione post partum?” anche se, a dire il vero, la tendenza alla malinconia l’avevi anche prima di partorire. Giorni in cui difficilmente intravedi margini di miglioramento per l’intera umanità e speri solo che la minchia di giornata appena cominciata finisca il prima possibile, senza lasciare traccia alcuna.
Nei giorni garbatamente no le cose spiacevoli succedono in una scala proporzionale accettabile, mentre in quelli veramente no, se qualcosa di sgradevole può accadere accade senza dubbio, specialmente a te.

Ci sono giorni no, che definirli no è fargli una gentilezza. Che al loro confronto anche il ragionier Fantozzi preferirebbe vivere i suoi. Che ti si rompe la lavastovie la mattina che segue la cena dei dodici colleghi di tuo marito, compresa la segretaria alta un metro e settanta con taglia trentotto, e mentre lasci i panni da stendere dentro la lavatrice insieme con quelli impilati sulla sedia da stirare che tanto poi li stende e li stira la persona che ti aiuta a fare le pulizie, quella ti chiama dopo che sei uscita e ti dice che non viene che c' ha il raffreddore.  D'altronde si sà sono mali di stagione ad Agosto e con quaranta gradi all'ombra.

Che litighi con lui su tutto, sul latte dimenticato sopra al tavolo sul prosciutto che hai comparto da Nando anziché da Renato sull’educazione del piccolo di stampo anarchico (l’educazione non il pargolo!), sui massimi sistemi e sul buco dell’ozono. Che ricacci indietro le lacrime per non dargliela vinta, urlando che Nando possiede i salumi più buoni sulla faccia della terra anche quando sai perfettamente che fanno vomitare.
Ci sono giorni no che definirli no è proprio un eufemismo, sono proprio giorni di merda.

Allora pensi a tutte le cose per te rassicuranti, cercando di minimizzare i guai che come scarafaggi sbucano da ogni angolo della tua vita che al confronto con i problemi seri, le malattie, la fame nel mondo, il dolore, il tuo giramento di scatole è proprio niente; eppure non provi il sollievo desiderato, anzi, sei più angosciata di prima e vorresti solo spegnere il mondo per qualche ora.
Ma quello no, niente, va avanti come niente fosse, inesorabile come il tempo che passa, frenetico, veloce, troppo, decisamente troppo rispetto a tutti i cambiamenti della tua vita.

Le rughe ai lati della bocca sono più evidenti rispetto a ieri e le manigliette dell’amore poste ai lati dei tuoi fianchi potrebbero salvare aggrappandovicisi l’equipaggio del Titanic. Mannaggia a me e a tutti i negroni del passato. Poi ti rendi conto che il Titanic non è più solo, ora c’è anche la Concordia e ti si attanaglia lo stomaco.

Non vado tanto fiera dei miei mojito, delle sigarette fumate, del tempo speso in malo modo e di quello perso. Di far parte di un’umanità che se ne frega dei più deboli. Non vado fiera degli imbecilli che popolano il mio mondo del potere e di chi non sa gestirlo, come non vado fiera del fatto che non riuscirò a pulire questa terra per mio figlio, ma amo pensare che quando i tarli della mia mente avranno finito di fare il casino che fanno, forse la luciderò, almeno un po’.

Mentre mio figlio piange perché suo padre gli ha tolto il telecomando che vuole ingoiare ed io mi dispero insieme a lui, perché  l'afa mi opprime, perchè la stanchezza mi mette di cattivo umore, perché lui dice”m’avetescocciatovadoaviveresullamontagnaechis’avvicinaglisparoconloschioppo”, perché ho sempre pensato che fossero scemi quelli che si rivolgevano alla tata Lucia, quella più anziana delle tre Tate di Sky che dispensa consigli anche a chi non li vuole e mi ritrovo a invocarla in silenzio pensando che non ci sono ragioni per essere felice oggi dato che è una giornata no nera come l’inchiostro, mi fermo di botto.

Mio figlio mi guarda. Sfodera uno sguardo malandrino. Di quelli che ti trapassano, ti bucano lasciandoti nuda di ogni certezza. Di quelli infiniti dove perderti è pace, tra le ciglia lunghe che ha.
Uno di quegli sguardi buffi, lunghi e intelligenti che non hanno bisogno di spiegazioni. Hanno capito già. Quelli rivolti da sotto a sopra.

Con il naso in su, sbirciando il mondo dai suoi settantanove centimetri arriccia il naso a mo di maialino, alza le braccia verso me, apre la bocca perfetta ridendo con i sui suoi innumerevoli denti, urlando “calla-calla-calla” che Dio solo sa cosa voglia dire, e  io penso: Dio come sono felice.

lunedì 13 agosto 2012

Di ferragosto e semi di anguria

Un ferragosto qualunque in una città deserta mi mette addosso la stessa malinconia del cinema pomeridiano il ventisei di dicembre, del circo, del capodanno e delle maschere a carnevale.

Sì, lo so, sono strana, senza rimedio.

Tutte queste saracinesche chiuse, la poca gente in giro, l’afa, hanno uno strano effetto su di me.
 Al caldo si mescolano sensazioni di solitudine, i pensieri volano verso i vecchi parcheggiati nelle strutture residenziali, dentro agli ospedali, verso gli animali abbandonati, oltre i lidi già percorsi.
I gavettoni e le grigliate mi mettono malinconia.
Bah, sarà. Sarà che forse sono un tantino snob o forse è solo che mi da sui nervi la bruttezza della gente.
Quella che urla, quella che spinge, quella cicciona che ti stende il telo da mare sotto l’ombrellone, mangia come se non ci fosse un domani, urla per chiamarsi e dispensa consigli sullo spendig review. Scusa, ma se fino all’altro ieri non sapevi neanche cosa fosse la revisione della spesa pubblica e che ce ne fosse una, pensi davvero di essere in grado di risanare le casse dello stato? Oh, Signore!
E che dire dei giri fuori porta mordi e fuggi con tanto di frittata alle cipolle, cotolette impanate, bucatini all’amatriciana con quaranta gradi all’ombra e anguria come se piovesse?
Scusate, ma l’immagine è proprio bruttina.
E’ che il ferragosto mi fa sempre pensare a “Il sorpasso” il film di Dino Risi del 1962.
L'Italia descritta nel film è la stessa di oggi, meschina, infingarda, borghese, ipocrita e bigotta.
Cambia la gente ma la mentalità è sempre la stessa.
La sacralità cozza contro le scampagnate e i pic nic mentre la statuetta della Madonna viene ancora portata in processione ovunque: attraverso le stradine dei centri storici, sul mare, tra colori,  suoni,  fuochi, balli notturni sotto idiversi  cieli stellati, tra la panzanella e le polpette al ragù.
 
L’anno prossimo prolungherò le mie vacanze quel tanto che serve per far sì che io non resti in città il giorno di Ferragosto, sempre che la spending review non preveda il licenziamento di tutti i dipendenti pubblici.
Scherzi a parte, vi auguro stelle cadenti e sogni. Tanti, belli, autoavverentesi.
Che le preghiere vengano ascoltate, i desideri trovino il loro sentiero, le mani si intreccino e i cuori si riavvicinino.
Se vi capita, sotterrate un semino di cocomero e con lui un segreto che portate nel cuore, se ne avete, altrimenti sputatelo contro il vostro vicino ciccione e strillone, ma senza farvi vedere.
Buon ferragosto.





mercoledì 8 agosto 2012

Riaperto, per vacanze terminate. Punto e a capo.

Bello immergermi di nuovo tra le righe di queste pagine solo mie tra gli spazi, le pause e i punti a capo.
Trovo che i “punto e a capo” siano bellissimi.
 A chi non è mai capitato di mettere un punto e saltare a capo?
Questa espressione mi è particolarmente familiare.
Chiudere capitoli e cominciarne dei nuovi, voltare pagina e ripartire da zero, aiuta a pensare che c’è sempre una seconda possibilità nella vita, che, nonostante le sconfitte, le cadute o il buio di certi periodi, c’è sempre un modo per cancellare la pagina corrente e ricominciare.
Riavviarci e ritrovarci diversi, cambiati ma pronti a riprendere in mano le briglie della nuova direzione da nuovo senso.
Spesso metto punti e spero in capi diversi che raramente evolvono come vorrei.
La fase post vacanze per me è la fase dei punti e a capo, dei propositi, dei disegni e dei progetti per i mesi futuri. Staccare la spina serve a riposare, a ricaricare le proprie batterie e contemporaneamente a regalarsi il tempo per pensare alle proprie priorità liberandosi dai grovigli dei fili di lana dei nostri maglioni invernali. Quelli che ci bloccano le braccia dentro maniche strette, quelli dei colli anello che strozzano parole appese, quelli delle sciarpe troppo aderenti.
 
Le mie vacanze sono state faticose (poteva essere diverso con un nanetto di quindici mesi che corre come un pazzo sulla qualunque battigia percorribile e si tuffa dentro ogni forma liquida che incontra davanti a se, sia essa mare, piscina, pozza, vasca o pescheria) fisicamente complesse (prendi il passeggino, portalo in spiaggia, monta l’ombrellone, metti la crema al nanetto, togli il pannolino bagnato, metti quello asciutto, porta paletta e secchiello, gonfia la ciambella, sgonfia la ciambella, io la bucherei sta ciambella, attenta che nanetto si suicida lanciandosi dallo scoglio o ingerisce un granchio quando va bene, una pigna quando va male, il rastrello della bambina vicina di ombrellone, quando va malissimo, rimetti la crema che si scotta che è biondo e poi lo portiamo in ospedale, non rispondere male a madri, suocere e mariti che s’impicciano di come, quando e cosa dai da mangiare a nanetto, ma una padellata di cavoli vostri no? che nanetto è felice così e io pure se non mi scocciate i maroni… ) emotivamente nostalgiche.
Sì, perché vederlo scoprire il mondo, guardarlo mentre fiducioso compone i propri pezzi, assistere alla costruzione della sua personalità e contribuire a rendergli il compito leggero e divertente mi rende felice e al tempo stesso, profondamente triste.
Mi rendo conto che il periodo che stiamo vivendo è magico; lui sgambetta verso il futuro.
 Lui porta il domani.
Lui ride con più denti che capelli.
Lui è amore dirompente capace di esondare ogni tipo di argine.
Eppure so che questo periodo è portatore di nostalgia, si trasformerà presto in ricordo, il tempo ne sbiadirà il colore e l’odore del suo sudore buono svanirà, diradato dalla distanza.
 I nostri piccoli gesti, come le profondità del nostro essere complici si faranno tracce, memorie di vita, oggi indissolubile, domani separata.
Mi strazio se penso all’elasticità di un cordone ombelicale che si allunga o si accorcia secondo le distanze.

 Ti lascerò andare, quando vorrai partire, quando dovrai disegnare spazi da riempire di cose nuove, ma mi ritroverai ad aspettarti e non dormirò vicina al telefono.
Avrò paura che potrà succederti qualcosa di brutto e cercherò di evitarlo, ma già so, che non potrò caricarmi i tuoi dispiaceri, ne far sì che questi si rimpiccioliscano.
Starò in ansia, quando non ci sarai.
Starò in ansia, quando non torni.
Starò in ansia ai tuoi esami.
Starò in ansia per te, ma gioirò dei tuoi successi, orgogliosa e fiera.
Per anni ho pensato che il cordone ombelicale che mi ha unito a mia madre per nove mesi, non sia stato mai reciso, elastico e duttile, invisibile, eppure presente; si è adeguato alle pieghe delle nostre vite, si è allungato superando distanze fisiche ed emotive, saldo e forte come la roccia”.
O come dice Chiara, invisibile. Come aria.
Durante le mie vacanze, non ho letto i libri stratificati da quindici mesi sul mio comodino, non ho perso il mio sguardo nell’estensione del mare, non ho fermato il tempo o dilazionato i pensieri, messo creme per combattere la mia cellulite.
Ho solo vissuto l’esplosiva, impetuosa, travolgente energia dell’amore che mi lega a un cucciolo d’uomo in fase di costruzione.
Ho paura di perdere una cosa immensa o il suo ricordo.
Ma è necessario che io cambi, perché lui sia felice.
Punto e a capo.





giovedì 2 agosto 2012